La pecora ed il drago

Che cosa resta di Dio nell’età dell’intrattenimento? Forse solo una risata. Un viaggio tra teologia, ironia e compassione, dove il sacro sopravvive imparando a sorridere. Perché ridere è ancora un modo di credere.

C’è un momento in cui il sacro smette di incutere timore e comincia, quasi impercettibilmente, a sorridere. Non è un’eresia, ma una stanchezza cosmica: la divinità che si guarda allo specchio e, per la prima volta, ride del proprio volto. Da lì comincia la modernità. Tutto il resto è conseguenza — filosofia, teologia, letteratura, pubblicità. L’universo si accorge di essere diventato spettacolo, e nella risata che lo attraversa si consuma la sua verità.

Non si tratta di una risata beffarda, ma di una consapevolezza. Il comico nasce nel momento in cui il sacro comprende di essere stato preso troppo sul serio. L’ironia è la febbre che segue l’adorazione. Ogni civiltà che ha costruito un dio ha poi dovuto inventare una forma per riderne, per non morire di reverenza. Così nacquero le feste dionisiache, i carnevali, le farse medievali, i romanzi picareschi. Così nasce oggi la comicità digitale, la parodia infinita di tutto ciò che è ancora degno di rispetto. Il mondo ride per non implodere, come il corpo che tossisce per liberarsi.

Forse è per questo che l’immaginario contemporaneo è popolato di mostri stanchi e di santi grotteschi. I draghi non custodiscono più tesori, ma timeline. Le pecore non pascolano nei campi, ma nei flussi delle reti. Entrambe le specie, se si osservano bene, si sono umanizzate: il drago cerca attenzione, la pecora cerca redenzione. Si somigliano sempre di più. Non è difficile immaginare un talk show in cui siedano uno di fronte all’altra: il drago, elegante, con gli occhiali da sole, che parla del proprio brand infernale; la pecora, compassata, che lo ascolta e di tanto in tanto annuisce, come se comprendesse. E intorno, un pubblico che applaude, ride, piange, come a un rituale collettivo di autoassoluzione.

Il nostro tempo ha fatto del riso la sua liturgia principale. Ridiamo di tutto, ma non per gioia — per sopravvivere. Ogni battuta è una piccola bestemmia che chiede perdono in anticipo. Eppure, nel cuore di questa ironia senza scampo, si nasconde ancora un bisogno di fede. Chi ride profondamente lo fa sempre per nostalgia di un assoluto perduto. La parodia è l’ombra della preghiera. Il sarcasmo è la forma postuma del sacro. Chi bestemmia con intelligenza, in fondo, spera ancora che qualcuno lo ascolti.

Questo saggio nasce da quella speranza. Non da un desiderio di distruggere il divino, ma di comprenderlo nella sua metamorfosi. Il riso, come la fiamma, non si oppone all’adorazione: la purifica. Tutto ciò che non può essere riso, non è vivo. Tutto ciò che sopravvive alla risata, è degno di restare. L’ironia, in questo senso, è una prova mistica: se Dio può ridere di se stesso, allora è davvero Dio.

Il punto non è più credere o non credere, ma capire come credere dopo la comicità. Come pregare dopo Bernhard, dopo Beckett, dopo Wallace. Dopo che i santi sono diventati comici, e i comici sono diventati santi laici, dispensatori di verità attraverso la risata. Forse la redenzione oggi passa per un microfono, non per un altare.

C’è una leggenda, tramandata in certi monasteri ironici che non esistono, secondo cui ogni mille anni un angelo si presenta al Creatore e gli chiede se non sia stanco della propria serietà. Si racconta che la prima volta Dio rispose con un tuono; la seconda con un sospiro; la terza con un sorriso impercettibile. Da quel sorriso nacque l’ironia. E da quell’ironia nacque l’uomo. Quando l’uomo imparò a ridere, Dio capì che era tempo di cambiare mestiere.

Ma non è una storia di blasfemia. È una storia di compassione. Perché ridere del sacro non significa negarlo: significa avvicinarlo alla nostra fragilità. La risata, se è sincera, è una forma di pietà. È un atto di conoscenza che libera dalla paura. Se piangere è chiedere salvezza, ridere è offrirla.

E allora, che cosa resta di Dio nel secolo dell’intrattenimento? Forse resta solo la sua eco nei paradossi della cultura: un Cristo stand-up, un Satana logorato dai like, un drago che recita pubblicità di sé stesso, una pecora che tiene un sermone sulla tenerezza. Figure assurde, ma più vere delle metafisiche accademiche. Attraverso di loro il sacro continua a parlare, anche se la lingua è mutata. Oggi parla la lingua dell’ironia — e ogni tanto balbetta, ma la balbuzie è già una forma di rivelazione.

Ho immaginato spesso che il riso sia il linguaggio che resta quando la parola ha fallito. Un residuo di luce. Come se l’universo, dopo aver pronunciato il Verbo, si fosse accorto dell’eccesso e avesse aggiunto, quasi per scusarsi, una risata. Forse è questo che chiamiamo grazia: la consapevolezza che anche Dio può sbagliare di tono.

Eppure, per comprendere il comico, bisogna attraversare il tragico. Ogni risata autentica nasce da una ferita. Lo sapeva Dostoevskij, quando faceva dire al suo idiota che la bellezza avrebbe salvato il mondo — perché la bellezza, per lui, era follia redentrice, grazia che non sa di essere grazia. Lo sapeva Kafka, che ridendo del tribunale eterno ne rivelava l’assurdità. Lo sapeva O’Connor, che nelle sue parabole grottesche faceva esplodere la santità in forma di colpo di pistola. E lo sapeva Bernhard, che trasformava la disperazione in musica, la bestemmia in elegia. Tutti, a modo loro, hanno provato a ridere del male per non esserne divorati.

In questa costellazione di risi dolorosi si muovono le due figure centrali di questo saggio: la pecora e il drago.

La pecora è la nostra parte mite, quella che accetta di morire per gli altri, ma spesso senza sapere perché. È l’innocente sacrificato, la bontà che diventa strumento del potere, la fede che sopravvive anche dopo il crollo del tempio.

Il drago, invece, è la caricatura del male: non più il mostro apocalittico, ma il demone manageriale, il signore dell’audience, il direttore creativo dell’inferno. È la forza che ha perso la propria trascendenza e si è ridotta a intrattenimento.

Tra la pecora e il drago non c’è opposizione, ma attrazione. Si cercano, si imitano, si specchiano. La pecora sogna di essere feroce; il drago sogna di essere amato. Da questa dialettica nasce l’immaginario moderno: un universo dove la bontà diventa spettacolo e la potenza si traveste da tenerezza. Non c’è più confine tra il martire e il clown.

In mezzo a loro, invisibile ma presente, c’è la figura del riso. È lui il vero protagonista: un riso che attraversa i secoli e i generi, che unisce la messa e la farsa, la teologia e il cabaret. Il riso che sa essere compassionevole senza rinunciare alla lucidità. Il riso che conosce il prezzo della fede e il valore del dubbio. Il riso che non giudica ma comprende, perché ha già pianto abbastanza.

Il mondo ha bisogno di questo riso come di un nuovo inizio.

Abbiamo conosciuto la serietà del potere, la tragedia della fede cieca, la disperazione del nichilismo. Ora ci serve una leggerezza capace di sostenere la verità senza crollare sotto di essa. Non una comicità volgare, ma una spiritualità ironica. Un modo di credere che non abbia più bisogno di avere ragione.

Un giorno, forse, qualcuno troverà nelle rovine del nostro tempo un piccolo altare dedicato alla risata. Sopra, due figure scolpite nella pietra: una pecora con un libro e un drago che le tende una fiammella per leggere. Sarà l’immagine di una riconciliazione. Il sacro e il grottesco che finalmente si parlano, senza più bisogno di vincere.

La prima volta che sentii parlare di quella pecora — dicono — era in un sogno.

Il tempio era vuoto, la navata piena di polvere e di piume. Una luce scendeva dall’alto, e dentro la luce c’era un animale che rideva piano. Non rideva di qualcosa, ma con qualcosa, come se avesse appena carpito un segreto che non si poteva dire. Forse era Dio. Forse era solo la sua eco.

Mi sembrò che mi invitasse a seguirla, non verso l’altare, ma verso l’uscita, dove il mondo ricominciava a fare rumore.

Lì, accanto alla porta, c’era un drago addormentato. La pecora si avvicinò, gli accarezzò il muso e gli disse qualcosa che non udii. Poi rise ancora, e il drago, con un gemito profondo, aprì gli occhi.

Fu allora che capii: il riso non separa. Il riso unisce.

È la lingua comune degli opposti, la possibilità di riconoscersi senza distruggersi.

Da quel giorno ho pensato che forse anche la filosofia dovrebbe imparare a ridere. Non per mancanza di rispetto, ma per rispetto della vita. L’ironia non è cinismo: è la forma adulta della pietà.

Chi ride con intelligenza, chi osa sorridere davanti al mistero, compie un atto più religioso di chi si inginocchia per abitudine.

Questo saggio, dunque, non è una negazione della fede. È una ricerca del suo riflesso più umano.

Un viaggio attraverso le sue caricature, le sue parodie, le sue derive grottesche, fino a scoprire che il divino non è scomparso — si è solo spostato.

Abita ora nei luoghi del ridicolo, nei gesti involontari, nei fallimenti luminosi.

Abita nelle pecore che non si arrendono e nei draghi che imparano a chiedere scusa.

Scrivere di loro è scrivere di noi: creature ironiche in cerca di compassione.

E se, alla fine, dovessimo scoprire che il riso è davvero l’ultimo sacramento, allora non ci resterà che celebrare.

Con una battuta gentile. Con una risata che non umilia.

Con la certezza che, anche nel ridicolo, c’è ancora un barlume di grazia.


I. L’impossibile sorriso del Cristo

I.1 Il paradosso teologico del Cristo che non ride

Nessuno lo ha mai visto ridere. Nei Vangeli, il Cristo parla, piange, tace, ma non ride. Non c’è un solo versetto che gli conceda quel minimo tremito delle labbra che separa l’uomo dall’idolo. È un’assenza che pesa quanto una rivelazione: il Figlio di Dio, che assume la carne per salvarla, non ne accetta il gesto più istintivo, quello che rompe la compostezza del volto.

I primi cristiani hanno sentito questo vuoto come un atto di coerenza. Il riso, dicevano, è il linguaggio della caduta: nasce dal corpo, attraversa i sensi, è scossa e perdita. Come avrebbe potuto il Redentore, incarnazione del Verbo, cedere a ciò che nasce dal ventre?

In molte icone bizantine, il volto del Cristo è una geometria immobile. Nessuna smorfia, nessun rilievo muscolare: la santità si misura nella cancellazione del movimento. È il sermo gravis tradotto in immagine: la parola pesante, il linguaggio che non si piega al gioco. Ma in certi dipinti posteriori, nella piega di un labbro o in un chiaroscuro incerto, si intuisce un accenno di sorriso — non di gioia, ma di compassione. Forse l’artista, senza volerlo, ha colto un istante in cui il divino vacilla nella carne, e la carne si permette un’ombra di leggerezza.

Se Dio ride, tutto si incrina. Ridere, per un Dio, significherebbe riconoscere la sproporzione della creazione: ammettere che il mondo è un esperimento ironico, una prova eccessiva di libertà. Per questo Cristo non ride: non per mancanza di humor, ma per eccesso di pietà. Il sorriso sarebbe la piena discesa nel nostro abisso, la kenosi portata al suo limite estremo — e forse da lì non tornerebbe più indietro.

E tuttavia, ogni parabola che racconta è costruita come una risata trattenuta. Il servo che perdona di più, il figlio che torna e viene accolto, il ricco che passa per la cruna di un ago: sono scherzi divini, paradossi che svelano l’assurdo nascosto nella giustizia. Il Cristo non ride, ma ci insegna a ridere con intelligenza. Ogni parabola è una risata in potenza, una teologia dell’inversione: la verità travestita da paradosso.

In questo gesto si nasconde la prima ironia del cristianesimo: la salvezza è un capovolgimento, non un trionfo. L’ironia, come il Vangelo, rovescia i forti e innalza i deboli.

Forse il vero sorriso del Cristo non è sulle sue labbra, ma nei volti di chi ascolta e capisce, per un istante, che la logica del mondo è già stata capovolta da quella voce dolce e spietata.


I.2 Agostino e Tommaso d’Aquino – Il riso come deviazione dal logos

Sant’Agostino, più di ogni altro, ha fissato nel riso il segno della caduta.

Nel De civitate Dei (XIV, 24) scrive che la gioia disordinata e la risata “agitano la mente” — motus animi che allontanano dalla gravitas della contemplazione.

Per lui, ridere è un sintomo della scissione dell’uomo: la carne si ribella allo spirito, la voce si incrina, il corpo tradisce la sua materia. È un atto che spezza l’unità, e dunque un riflesso del peccato originale.

In Agostino, il riso non è un semplice errore di decoro: è un segno di disobbedienza ontologica.

La civitas Dei non ride perché è perfetta; la civitas terrena ride perché è spezzata.

E tuttavia, proprio in questa frattura si nasconde la prima possibilità dell’incarnazione: solo chi è diviso può desiderare l’unità. Il riso, come la ferita, ricorda che siamo corpo.

Con Tommaso d’Aquino, la questione si fa più terrena.

Nella Summa Theologiae (II-II, q.168, a.4) distingue fra il gioco virtuoso e la stoltezza eccessiva.

Scrive: “Ludus potest esse virtus, si debitum ordinem rationis non excedat” — “il gioco può essere virtù, se non oltrepassa il giusto ordine della ragione”.

In questo gesto linguistico si consuma una piccola rivoluzione: il riso entra nella teologia come oggetto morale. Non è più solo disordine, ma fenomeno da regolare, misurare, discernere.

Tommaso riconosce che l’anima ha bisogno di respiro, che la serietà perpetua è una forma di superbia. Tuttavia, impone al riso una soglia: virtus si moderatur. Ridere sì, ma con misura.

Così la Chiesa latina eredita il doppio linguaggio: da un lato il sermo gravis, il tono del pulpito; dall’altro il sermo humilis, la parola che discende, che si sporca, che diventa carne. Il Cristo dei Vangeli parla spesso in sermo humilis: le parabole sono storie basse, racconti di servi, mendicanti e padri distratti. È lì, nella lingua umile, che si annida il seme della comicità divina.

Ma i teologi medievali temevano quel seme. Il riso, dicevano, nasce dai muscoli del volto — fragilitas carnis — e dunque testimonia la nostra precarietà. È il corpo che si ricorda di esistere.

Eppure, proprio in questo moto della carne si rivela il mistero dell’incarnazione: il Dio che si fa uomo accetta anche la possibilità di ridere, pur scegliendo di non farlo. Il riso diventa il confine visibile dell’umano, la soglia che Dio sfiora ma non attraversa.

Nei secoli successivi, la teologia smise di parlarne, ma l’arte continuò a farlo.

Ogni pittore che aggiunse un’ombra di sorriso al volto del Cristo compì un atto di eresia compassionevole. Non negava il dolore, lo completava.

Un Dio che ride, anche solo per un istante, non perde la sua maestà: la offre.

E forse è qui che comincia la modernità — in questo rovesciamento.

Ciò che i Padri temevano come disordine diventa, per noi, la forma più alta della grazia.

Il riso non è più deviazione dal logos, ma il suo compimento incarnato: la parola che si fa carne non può evitare di tremare.

Ogni sorriso è un piccolo terremoto della teologia.

E proprio in quel momento di vibrazione, nel silenzio tra il dogma e la bocca che ride, si sente qualcosa muoversi — una voce che non appartiene ai santi né ai filosofi.

Una voce più antica, o forse più ironica, che sussurra con tono innocente:

“Se Cristo non ride, chi ride di Lui?”

Il coro tace. Nessuno risponde. Ma nel silenzio, è difficile non sentire il suono di una risata lontana — breve, sommessa, forse lanata.


I.3 Kierkegaard e la “serietà disperata” della fede

Quando il cristianesimo, dopo Agostino e Tommaso, aveva ormai ridotto il riso a questione di misura morale, arrivò un pensatore a capovolgere la tavola.

Søren Kierkegaard, l’uomo che trasformò la fede in paradosso, scoprì che il vero credente non è colui che possiede la verità, ma chi accetta di vivere nella sua contraddizione.

Da allora la teologia non fu più un dogma, ma una vertigine.

Per Kierkegaard, l’ironia non è un difetto dell’anima, bensì il suo respiro più onesto.

Nel Concetto dell’ironia (1841), definisce l’ironia “una libertà infinita che sa di non poter creare nulla di stabile” — una condizione liminale, simile a quella del funambolo che attraversa il vuoto sapendo che non esiste terra dall’altra parte.

L’ironia, dunque, non è cinismo ma consapevolezza tragica: sapere che ogni parola può tradirsi, e che solo attraverso il paradosso la fede diventa reale.

Nel Timore e tremore, quella consapevolezza si fa carne. Abramo sale sul monte Moria per sacrificare il figlio, e non ride. Ma nella sua obbedienza assoluta — nel gesto di chi sa che Dio può contraddirsi — c’è la scintilla di un’ironia cosmica: l’assurdo diventa l’unico terreno della fiducia.

Il “cavaliere della fede” è colui che sorride dentro la disperazione, non per leggerezza ma per lucidità.

È un sorriso che non si vede, ma che tiene in equilibrio il mondo.

La “serietà disperata” di Kierkegaard è il punto di rottura tra la religione e la modernità.

Per lui, il comico e il tragico non si escludono: si compenetrano.

Ogni verità profonda deve passare attraverso il suo contrario, e ogni salvezza deve attraversare il ridicolo.

Chi non accetta questa logica resta prigioniero della serietà — quella serietà che non salva, perché confonde la gravità con la fede.

“L’ironia,” scrive, “è l’eterna salute dell’interiorità”: la risata interiore del credente che non può più credere come prima, ma non riesce neppure a smettere.

Nella figura di Kierkegaard si compie l’evoluzione del riso sacro.

Dopo Agostino e Tommaso, il riso era caduto fuori dal tempio; con lui, rientra come fantasma: non più smorfia del corpo, ma gesto dello spirito.

Il riso interiore è l’eco di Dio in un’anima che sa di essere abbandonata, ma che non rinuncia alla relazione.

È il “riso dell’assurdo”: non consola, non deride, ma indica la libertà che nasce dal limite.

Questa ironia non salva dall’angoscia — la rende abitabile.

Kierkegaard la chiama la passione del possibile: la fede che ride senza saperlo, perché la disperazione è già troppo grande per restare muta.

Quando la mente tocca il confine del divino, l’unico suono che resta è una risata senza voce.

C’è in lui un tratto profondamente cristologico: il Cristo che non ride all’esterno, ma che forse ride dentro, nel momento stesso in cui muore.

Non un riso di scherno, ma un riso di conoscenza: la consapevolezza che l’amore è più grande della logica che lo giudica.

Quel sorriso invisibile — il sorriso del sacrificio — è il centro segreto del pensiero kierkegaardiano.

Da questo punto, la teologia si apre a una nuova stagione: quella del paradosso ironico.

Dio non è più l’oggetto della certezza, ma la forma più estrema del dubbio.

Credere diventa un atto di comicità metafisica: saltare nel vuoto sapendo che, se anche non c’è nulla, almeno si cadrà ridendo.

Kierkegaard non scrisse mai una “teologia del riso”, ma la praticò.

Ogni sua pagina è un dialogo con l’assurdo che si finge sermone.

Dietro la sua disperazione brilla un’ironia sottile, come un lume nascosto sotto la cenere.

Non è il riso liberatorio dei mistici, né la farsa dei carnevali medievali: è la risata che tiene in vita chi ha perso ogni altra speranza.

E qui — come un bisbiglio che attraversa le biblioteche — ritorna la voce di prima, la voce lanata, che chiede piano:

“Ma allora, se la fede è ironia, chi resta serio?”

Una pausa, poi la risposta:

“Forse soltanto chi non ha mai riso.”

La voce tace, ma lascia dietro di sé una specie di sollievo.

Come se la risata interiore del pensatore danese avesse trovato, dopo due secoli, il suo eco più imprevisto: non nella bocca di un filosofo, ma nel mormorio di una pecora che ha imparato a dubitare con dolcezza.

Forse è questo, in fondo, il miracolo kierkegaardiano:

avere insegnato al pensiero moderno a ridere con rispetto.

Non del mondo, ma di se stesso.

Non per deridere, ma per respirare.

E in quel respiro — un po’ grave, un po’ lanoso — comincia la libertà.


I.4 Eraclito e Democrito – I filosofi che piangono e ridono

Nella tradizione antica, il pensiero nasce diviso in due volti: uno piange, l’altro ride.

Eraclito e Democrito sono i gemelli discordi della filosofia, i primi interpreti del mondo come teatro.

Il loro contrasto è la radice di tutto ciò che l’Occidente avrebbe poi chiamato “spirito tragico” e “spirito comico”.

Tra loro si decide la postura dell’uomo davanti al mistero: piangere per comprenderlo, o ridere per sopportarlo.

Eraclito, il “filosofo oscuro”, guardava l’universo come un incendio che si consuma in se stesso.

Nel frammento 52, scrive che “il tempo è un bambino che gioca con i dadi” — ma non c’è tenerezza in quell’immagine: c’è ferocia.

Il gioco è una legge impersonale, e chi tenta di leggerla con il cuore si brucia.

Per lui, il cosmo è un fuoco che divora i propri contrari, e la sapienza consiste nel riconoscere la necessità del dolore.

Eraclito piange perché capisce troppo: la sua lacrima non è compassione, ma lucidità.

È la stessa serietà disperata di Kierkegaard trasposta nel linguaggio del mito: sapere che il mondo è perfettamente giusto, ma terribilmente ingiusto per chi lo abita.

Democrito, invece, è il suo rovescio comico.

Ride del mondo, ma non per superficialità — per distanza.

Nel suo riso atomico si nasconde una forma di pietà lucida: ridere per non essere divorato.

I frammenti dicono che rideva di tutto ciò che gli uomini considerano importante: la fama, la ricchezza, la gloria, la morte.

Ridere era il suo modo di salvarsi dall’inutile.

Dove Eraclito vedeva l’abisso, Democrito scorgeva il gioco: la medesima legge cosmica, ma senza pathos.

Il riso come forma di igiene metafisica, una profilassi contro la disperazione.

Da questi due archetipi — il piangente e il ridente — nasce la tensione che ancora abita il pensiero moderno.

Da un lato, il pathos di chi sente troppo il dolore del mondo e lo trasforma in coscienza;

dall’altro, il distacco di chi lo accetta e lo trasfigura in ironia.

Senza Eraclito, non esisterebbero né la tragedia né la teologia;

senza Democrito, non avremmo né la commedia né la scienza.

Piangere e ridere sono due modi di dire la stessa cosa: che la realtà ci supera, ma possiamo ancora nominarla.

Il Medioevo, con la sua devozione alla serietà, ereditò da Eraclito la malinconia del sapere;

l’Umanesimo, più spavaldo, riscoprì Democrito come figura della libertà.

Così il riso tornò lentamente a insinuarsi nella filosofia, non più come disordine ma come conoscenza.

Il comico divenne un metodo di lettura: smascherare il potere attraverso la leggerezza.

Ogni risata vera è un atto critico, una rivolta contro la pesantezza del significato.

Nel Rinascimento, Eraclito e Democrito furono spesso dipinti insieme: due volti di uno stesso pensiero.

In certe tele fiamminghe li si vede affiancati, uno con la mano sugli occhi, l’altro con la bocca aperta in un sorriso.

In mezzo, una sfera armillare o un globo terrestre: il mondo che li separa e li unisce.

È il ritratto dell’umanità stessa — incapace di scegliere tra la compassione e il sarcasmo.

Forse la saggezza consiste nel sapere quando cambiare volto.

Eraclito, nella sua solitudine di Efeso, aveva trasformato la conoscenza in dolore:

capire significa soffrire.

Democrito, nel suo giardino di Abdera, aveva scelto l’opposto: capire significa ridere.

Tra i due, passa una linea invisibile che ancora oggi attraversa la nostra cultura, dal pulpito al palcoscenico, dalla filosofia al talk-show.

Chi sta da una parte, predica; chi sta dall’altra, intrattiene.

Eppure, entrambi cercano la stessa cosa: una forma di verità che non uccida.

Il mondo moderno, se potesse, riderebbe e piangerebbe insieme.

Ma non ne è più capace: ha perso la simultaneità, la coesistenza dei contrari.

Rimane sospeso tra l’angoscia e la farsa, incapace di fondere il riso e la lacrima in un solo gesto.

L’arte, forse, è il luogo dove quella fusione si compie ancora: dove Eraclito e Democrito, stanchi di discutere, si siedono l’uno accanto all’altro e guardano il mondo scorrere come una vecchia pellicola.

Uno sospira, l’altro ride. Entrambi, in fondo, pregano.

E in quella preghiera doppia — il pianto che illumina e il riso che consola — si trova il punto d’equilibrio del pensiero umano.

È lì che la filosofia tocca la teologia, e il comico diventa serio come una rivelazione.

O almeno così sembra, finché una piccola voce non si intromette, curiosa e leggera, e domanda:

“E se a ridere e a piangere fosse lo stesso animale?”

Silenzio. Poi un rumore di zoccoli che si allontana.

Forse era una pecora. Forse la verità, che si prende gioco di noi.


I.5 Bachtin e la rivelazione carnevalesca

Dopo secoli di teologi, profeti e filosofi che hanno contemplato il riso come un sintomo o un enigma, fu un critico russo del Novecento a ricordare all’umanità la sua natura più semplice e più profonda: il riso è del corpo.

Mikhail Bachtin — studioso di Rabelais, teorico del dialogo e della molteplicità — vide nel riso popolare la più antica forma di libertà.

Quando l’ideologia, la religione o la filosofia pretendono di essere assolute, arriva il carnevale: una risata collettiva che rovescia il trono e lo trasforma in giostra.

Nel suo Rabelais e il suo mondo, Bachtin descrive il carnevale come un’epifania terrena.

Durante quei giorni sospesi, la gerarchia si dissolve, il re e il mendicante si scambiano le maschere, il sacro e il profano si mescolano senza colpa.

Il riso non è più deviazione, ma rivelazione: svela che la verità non appartiene ai palazzi, ma ai corpi.

Il popolo ride perché, per un istante, si riconosce immortale.

La morte stessa diventa comica: scheletri danzanti, preti ubriaconi, santi travestiti.

È il rovescio esatto della liturgia: una liturgia del basso, dove la grazia passa attraverso lo stomaco.

Per Bachtin, il corpo che ride è il vero centro della cultura umana.

Il cristianesimo lo aveva spiritualizzato, la filosofia lo aveva separato, il potere lo aveva disciplinato — il riso lo restituisce alla vita.

Nel carnevale, il corpo non è più un ostacolo: è un tempio che si apre, un’energia che riconcilia.

Il ventre, la bocca, le viscere diventano strumenti di conoscenza.

Nel linguaggio di Bachtin, è il “corpo grottesco”: aperto, incompiuto, attraversato dai flussi della nascita e della decomposizione.

Un corpo che non teme la propria fine perché sa che ogni fine è principio.

Il cristianesimo, paradossalmente, aveva preparato questo gesto.

Nel suo messaggio di rovesciamento — “gli ultimi saranno i primi” — conteneva già la logica del carnevale.

Solo che la Chiesa, nei secoli, ne aveva trattenuto la forza sovversiva.

Il carnevale, invece, la restituisce alla piazza.

È la teologia che torna nel fango, la salvezza che indossa una maschera e si mette a ballare.

Bachtin non scrive da teologo, ma il suo pensiero è una delle più radicali teologie del Novecento.

Sostiene che il riso è conoscenza perché apre ciò che il potere chiude.

Nel momento in cui ridiamo, smettiamo di essere sudditi.

Il riso è un atto escatologico: annuncia un mondo nuovo, anche solo per la durata di una risata.

Non a caso, per lui la festa popolare è “il tempo senza tempo”: un anticipo della resurrezione, ma senza dogma, senza promessa, senza cielo.

Solo terra, vino, voce, corpo.

La potenza del carnevale non è nel disordine, ma nella comunione.

Nel ridere insieme, gli uomini scoprono di essere uguali.

La parodia non distrugge, ricrea.

Ogni maschera, ogni eccesso, ogni volgarità è una forma di pietà fisica.

Ridendo, gli uomini perdonano se stessi: si riconoscono parte di un ciclo più grande, dove il ridicolo e il sacro si scambiano continuamente di posto.

È per questo che Bachtin chiamava il riso “universale e vittorioso”.

Non perché annulli il dolore, ma perché lo assorbe.

Nel riso collettivo, la morte perde il suo privilegio: viene ridotta a barzelletta, smontata come un ingranaggio che non fa più paura.

Il carnevale, in fondo, è la resurrezione portata sulla terra: non un miracolo, ma una consapevolezza — che tutto ciò che crolla può tornare a fiorire.

Il mondo moderno ha dimenticato questa lezione.

Abbiamo ancora la risata, ma non la comunione.

Ridere oggi è un gesto isolato, individuale, frammentario — uno scroll, una clip, un meme.

Abbiamo sostituito la piazza con lo schermo, la voce collettiva con il suono algoritmico dell’approvazione.

Il riso, da carnevalesco, è diventato competitivo: ciascuno ride per primo, per più tempo, per più pubblico.

Il carnevale digitale è un inferno di solitudini simultanee.

Eppure, nel frammento di Bachtin rimane una speranza.

Il corpo, dice, non smette mai di ridere davvero.

Nei momenti di catastrofe, di lutto, di fatica, torna quel riso basso, quasi animale, che non deride ma consola.

È la memoria antica della festa.

Il popolo, anche nel silenzio, continua a ridere dentro di sé — un riso che non si sente, ma che impedisce al mondo di morire del tutto.

A volte, quando il tempo sembra troppo serio, è possibile avvertire ancora quell’eco.

Un suono lontano, forse un nitrire o un belato, che sale da sotto le rovine della ragione.

È il riso del corpo collettivo, la risata del fango, l’ultima liturgia del basso.

Qualcuno potrebbe chiamarla sacrilega.

Io la chiamo, con Bachtin, una rivelazione: la grazia che passa per la pancia.

E forse è questa la più antica preghiera della terra: ridere insieme.

Perché nessuno può ridere da solo senza trasformare il riso in disperazione.

Solo il riso condiviso salva, solo il corpo comune redime.

Forse Dio, nel suo silenzio eterno, sorride ancora per questo: perché sa che, finché rideremo insieme, non saremo mai del tutto perduti.


I.6 Sloterdijk, Cioran e Wallace – L’ironia come sopravvivenza post-metafisica

Dopo la teologia e dopo la metafisica, resta il riso.

Non il riso di Dio, né quello del popolo, ma il riso interiore di chi ha visto crollare ogni verità e non ha più nulla da opporre se non un sorriso di resistenza.

È il riso di chi ha attraversato il deserto del significato e ha deciso, invece di tacere, di ridere piano per non impazzire.

Sloterdijk lo chiama cynisme éclairé — cinismo illuminato.

Cioran lo trasforma in elegia.

Wallace tenta di salvarlo con la tenerezza.

Da loro tre nasce la mappa del riso moderno: una topografia dell’intelligenza ferita.

Sloterdijk, in Critica della ragion cinica (1983), descrive l’uomo contemporaneo come un credente disilluso che continua a recitare il proprio ruolo pur sapendo che è una farsa.

“Essi sanno ciò che fanno, e tuttavia lo fanno,” scrive, parafrasando Marx.

Il cinico moderno non è un dissacratore, ma un sacerdote esausto che celebra il rito sapendo che non funziona più.

Il suo riso è difensivo, intellettuale, una corazza contro la stupidità del mondo.

È il riso di chi guarda il potere e lo smonta con un’alzata di sopracciglio.

Ma dietro quella lucidità si nasconde una malinconia: sapere tutto e non poter cambiare nulla.

Il cinico illuminato non è libero — è solo troppo lucido per credere ancora.

Cioran, invece, scende un gradino più in basso, o forse più in alto.

Nel suo Sillogismi dell’amarezza il riso diventa metafisica pura:

“Mi rido di tutto perché non ho trovato nulla che meriti lacrime.”

Per lui, la risata è il gesto di chi ha oltrepassato la disperazione.

Non c’è più Dio, ma c’è ancora l’estasi del nulla.

La sua ironia è un monachesimo senza fede: un ascetismo del disincanto.

Cioran non ride per leggerezza, ma per pietà.

Ride del mondo come un vecchio monaco ride di se stesso: perché sa che non esiste salvezza, e tuttavia respira.

Il suo riso è un sospiro, una forma di preghiera negativa: ridere per non bestemmiare.

David Foster Wallace, un secolo dopo, eredita entrambi ma li rovescia.

In Infinite Jest e nei suoi saggi, l’ironia diventa malattia nazionale.

L’America — dice — è un paese che si è distrutto ridendo di sé.

Ogni emozione è sospetta, ogni sincerità è già una parodia.

L’ironia, nata come antidoto alla menzogna, è diventata essa stessa la menzogna.

Wallace capisce che la modernità ha fatto del distacco un veleno:

“L’ironia è la voce di chi ha paura di essere serio.”

Eppure, non rinuncia alla risata: tenta di salvarla trasformandola in compassione.

Propone un’ironia nuova, “trasparente”, capace di dire la verità attraverso la vulnerabilità.

Nel discorso This Is Water, rivolto a giovani laureati, dice:

“L’attenzione è una forma di amore.”

È la frase più antitetica al cinismo mai scritta nel dopoguerra.

Per Wallace, la sola risata che salva è quella che nasce dalla cura.

In Sloterdijk, il riso protegge.

In Cioran, purifica.

In Wallace, consola.

Sono tre gradazioni della stessa sostanza: il riso come forma di sopravvivenza in un universo senza centro.

L’ironia, privata della sua dimensione sacra, diventa disciplina morale.

Non ci fa più ridere: ci impedisce di crollare.

Eppure, anche in questo scenario disincantato, resta una domanda.

Se l’ironia serve solo a resistere, può ancora salvare?

O è ormai una malattia dell’intelligenza, un riflesso automatico di chi non sa più stupirsi?

La risposta, forse, sta nel modo in cui questi autori guardano il ridicolo: non come minaccia, ma come condizione naturale dell’uomo.

Cioran scrive: “Ogni pensiero profondo finisce nel ridicolo.”

Wallace avrebbe sorriso, annuendo.

Il ridicolo è la prova che la serietà non basta più.

È la via umana al divino, l’ultima teologia possibile dopo il disincanto.

Da Sloterdijk ereditiamo la lucidità, da Cioran la pietà, da Wallace la speranza.

Tre tonalità di uno stesso gesto: ridere non perché si è felici, ma perché si è ancora vivi.

Nel mondo post-metafisico, la risata è l’ultima forma di preghiera.

È il corpo che, pur sapendo di essere finito, continua a vibrare.

È la parola che ha perso il suo cielo ma conserva l’eco di un tempio.

È la bocca che si apre non per affermare, ma per respirare.

E forse è proprio qui che il riso ritrova la sua sacralità perduta:

non nel contenuto, ma nel ritmo.

Ogni risata — anche quella più amara — è un atto di respirazione, una piccola resurrezione del fiato.

Chi ride, per un istante, vince la morte.

Chi riesce a far ridere gli altri, moltiplica quella vittoria.

A questo punto, non resta che una piccola voce, ancora una volta inattesa, che commenta piano, come da dietro la tenda:

“E se l’ironia fosse solo un modo gentile per dire Amen?”

Nessuno risponde.

Ma nel silenzio che segue, si sente — lieve, distante — il rumore di una risata che non deride, ma accompagna.

Forse è la risata di Dio che torna, finalmente, nella gola degli uomini.


I.7 Interludio lanato – Processo al Riso

La sala è colma di mormorii.

Pareti di lana bianca, colonne d’avorio, un’aula che odora di incenso e di fieno secco.

Sul banco più alto, un seggio scolpito con simboli indecifrabili: una spirale, un occhio, un sorriso inciso a metà.

È il Tribunale del Riso, istituito — dice la leggenda — quando il cielo, stanco di sentir ridere la terra, decise di processare la causa.

Al centro siede Lady Woolfred, giudice suprema, mantello di lana nera bordato d’oro.

La sua voce è ferma e dolce, come chi ha imparato a parlare con la pazienza delle madri e la precisione dei filosofi.

“Aula aperta. Caso numero uno: Il Popolo contro il Riso.

Imputazione: profanazione del divino, riduzione del mistero a divertimento, eccesso di leggerezza cosmica.

Difesa: il Riso sostiene di essere, al contrario, l’ultimo custode della fede.

Che la causa abbia inizio.”

Un mormorio attraversa la folla: pecore teologhe, capre eretiche, galline mistiche, un drago in giacca di lino che mastica un rametto d’incenso.

Sulle panche posteriori, qualche filosofo smarrito prende appunti: Platone, Bachtin e un sosia malinconico di Kierkegaard che si nasconde sotto il banco.

Il primo a parlare è il Pubblico Ministero, una pecora con gli occhiali, tono clericale:

“Onorevole corte, il riso è un disastro teologico.

Ha ridotto l’estasi a intrattenimento, la preghiera a battuta, la verità a sketch.

Da quando il riso è entrato nei templi, la serietà è fuggita dalle anime.

Propongo la condanna all’esilio perpetuo: che il riso venga relegato nei teatri, e non osi più disturbare la liturgia.”

Segue un silenzio, rotto solo da un soffio del drago.

Il difensore del Riso — un agnello giovane, con la criniera pettinata male — si alza e parla piano.

“Onorevoli colleghi, sorelle di lana e fratelli di fiamma,

il riso non distrugge: rivela.

Quando l’uomo ride, ammette la propria finitudine, e in quel gesto Dio si riconosce in lui.

Il riso è un sacramento minore, ma necessario: serve a evitare che la fede marcisca in superbia.

Se Dio ha creato l’uomo a sua immagine, deve aver previsto anche la possibilità del sorriso.

Altrimenti ci avrebbe fatti di pietra.”

Lady Woolfred annuisce lentamente.

Dal fondo della sala una voce roca interviene: è il Drago Testimone, invitato d’ufficio come esperto di ironia infernale.

“Io conosco bene il riso,” dice con voce cavernosa.

“Nel mio regno se ne fa un grande uso: ridiamo di tutto, di tutti, senza compassione.

È un riso sterile, che non libera.

Ma poi, un giorno, ho sentito ridere un uomo durante la sua morte.

Non rideva di me. Rideva con qualcosa che io non capivo.

Da allora ho smesso di ridere.

Mi chiedo se quello, e non il mio, fosse il vero riso divino.”

Un brivido percorre l’aula.

Lady Woolfred si alza, cammina lentamente verso il centro, posa il martelletto.

“Il problema,” dice, “non è il riso, ma chi lo usa.

Ci sono due tipi di risate: quella che separa e quella che unisce.

La prima nasce dall’orgoglio; la seconda, dalla compassione.

La prima è dell’uomo che si crede dio; la seconda, di Dio che accetta di essere uomo.”

Si volta verso l’assemblea:

“Chi ride con crudeltà bestemmia. Chi ride con pietà prega.”

Un silenzio denso, poi un sussurro cresce: le pecore mormorano, alcune piangono, altre — timidamente — cominciano a ridere.

Una risata leggera, sincopata, che si allarga come una benedizione.

Persino il drago, incerto, solleva il muso e lascia uscire un piccolo sbuffo di fumo che suona come un applauso.

Lady Woolfred alza la mano:

“In nome del Sacro Ridicolo, dichiaro il Riso non colpevole.

Ma lo ammonisco: che d’ora in poi serva la verità e non il potere.

Che accompagni, non derida.

Che illumini, non bruci.

La sentenza è sospesa — come tutto ciò che vive tra lacrima e sorriso.”

Poi aggiunge, più piano, guardando il pubblico:

“E ricordate, fratelli: quando il cielo tace, è al riso che spetta parlare.”

L’udienza si scioglie.

Le pecore si spargono nella piazza; il drago rimane un momento, pensoso, poi si toglie gli occhiali e sorride.

Dall’alto, un raggio di sole entra attraverso la cupola di lana e, per un istante, pare che tutto — il tribunale, le bestie, il mondo — si illumini come dentro una risata silenziosa.


I.8 Il corpo e la voce del riso – Dal tribunale alla piazza

Quando le porte del Tribunale del Riso si aprirono, nessuno capì subito se la sentenza fosse una vittoria o un ritorno alla realtà.

Le pecore scesero in silenzio per le scale di lana, il drago le seguì con passo lento.

Fuori, la luce era abbagliante: il cielo pareva una grande bocca pronta a parlare.

E infatti parlò — non con parole, ma con un suono che sembrava vento e canto insieme.

Era il riso che, assolto, tornava tra i vivi.

La piazza si riempì.

Non di parole, ma di corpi.

Le pecore, i filosofi, gli animali mistici, i curiosi, i santi travestiti, persino qualche funzionario celeste: tutti mescolati, senza gerarchia.

Il tribunale aveva dissolto la distinzione tra alto e basso, tra giudice e imputato.

Restava solo il ritmo, una vibrazione comune, come se il mondo intero respirasse all’unisono.

E in quel respiro si capì ciò che Bachtin aveva intuito e che Sloterdijk e Wallace avevano temuto: che il riso non appartiene né al pensiero né al potere, ma al corpo.

È una forma di conoscenza che non passa per le idee, ma per il diaframma.

Un sapere che si espande con il respiro e si trasmette con il suono.

Ridere è ricordare che la carne è viva.

Ogni risata è un atto di comunione.

Nel ridere insieme, i corpi si riconoscono, si sincronizzano, diventano uno spazio comune.

Il riso è contagio, non concetto: si diffonde come luce o calore.

È una lingua senza grammatica, fatta solo di ritmo e vibrazione.

In quella piazza, la teologia si sciolse in musica.

I dogmi diventarono cori, le verità si trasformarono in danza.

Lady Woolfred, rimasta sulla soglia del tribunale, osservava in silenzio.

Il drago le si avvicinò e chiese, quasi con pudore:

“È questo il paradiso?”

Lei scosse il capo.

“No,” rispose, “è solo il corpo che ricorda di essere sacro.”

E allora anche il drago rise.

Un riso basso, quasi impercettibile, ma così profondo che le finestre tremarono.

Fu il segnale.

Tutta la piazza esplose in una risata simultanea, come un coro gregoriano rovesciato.

Non c’era derisione, non c’era ironia: solo liberazione.

Le voci salivano e scendevano, s’inseguivano, si fondevano in un’unica vibrazione.

Era come se la terra stesse respirando per la prima volta dopo un lungo inverno.

Nel caos di quella festa improvvisata, qualcuno riconobbe un miracolo minore: le parole, per un momento, persero il loro peso.

I nomi non dividevano più, le definizioni non servivano.

C’era solo la voce.

E la voce, quando non appartiene a nessuno, è divina.

Una pecora anziana — forse una monaca, forse una filosofa — si mise a cantare.

Non era un canto liturgico, ma una litania senza testo: sillabe che si scioglievano in suono, suono che si piegava in riso.

Le altre la seguirono.

Nel giro di pochi minuti, la piazza intera si trasformò in un organismo sonoro, pulsante.

Il riso divenne canto, il canto respiro, il respiro preghiera.

Chi guardava da lontano — i teologi, i santi, i droni divini in missione di sorveglianza — non seppe dire se fosse un miracolo o una rivoluzione.

Forse entrambe le cose.

Forse erano la stessa cosa.

Il corpo, che per secoli era stato il colpevole della caduta, divenne improvvisamente il testimone della redenzione.

Nessuna parola pronunciata, nessuna promessa, solo il movimento comune, il riso come ritmo del mondo.

Era come se la creazione, stanca della sua stessa gravità, avesse deciso di prendersi una pausa per ridere di sé.

Alla fine, quando la sera cadde sulla piazza, le risate si affievolirono.

Restavano echi, come note sospese nell’aria calda.

Il drago dormiva accanto a una fontana, le pecore si stringevano in piccoli gruppi a raccontarsi storie.

Qualcuno disse che aveva visto una figura passare tra la folla: un uomo con il volto sereno, gli occhi stanchi e un accenno di sorriso sulle labbra.

Nessuno lo riconobbe davvero.

Forse era solo un riflesso della luce.

O forse, finalmente, il Cristo che ride.

E nel silenzio che seguì, come un ultimo battito del mondo, una voce sussurrò:

“Il riso è tornato nella carne.”



II. La pecora – L’innocenza sacrificata

II.1 L’agnello e il gregge – Dal Vangelo alla società del controllo

Nel principio era la voce che chiamava per nome.

Poi venne la folla che rispondeva in coro, e il nome si fece numero.

Da allora l’uomo ha imparato a contarsi, a disporsi in fila, a camminare al passo del gregge.

Nel mondo della salvezza, l’obbedienza era virtù; in quello del potere, è diventata metodo.

Il Vangelo aveva detto “Il buon pastore offre la vita per le sue pecore”; il nostro tempo ha aggiunto: “e ne traccia il percorso.”

L’agnello è la figura più antica del sacrificio e la più duratura del conformismo.

Simbolo di innocenza, di purezza, di dolcezza senza difesa.

Nella Bibbia, è la vittima scelta perché non resiste, perché non lotta, perché muore in silenzio.

Ma dietro quella dolcezza si nasconde un inganno: il sacrificio dell’agnello serve a giustificare il potere del pastore.

L’innocenza, trasformata in dogma, diventa strumento di controllo.

Chi non resiste è considerato santo, e chi ride della propria condanna, eretico.

Il cristianesimo, che aveva rovesciato i valori del mondo, ne ha ereditato le forme di dominio.

L’agnello sacrificale, immagine della grazia, diventa presto modello sociale.

L’obbedienza sostituisce la libertà; la sottomissione diventa garanzia di purezza.

Il pastore governa il gregge con la parola, ma la parola è un recinto.

Michel Foucault, in una pagina dimenticata dei suoi corsi al Collège de France, definiva la modernità come “pastoralità generalizzata”: il potere che si diffonde non più come comando, ma come cura.

“Ti controllo,” dice oggi il pastore digitale, “perché ti amo.”

Nella società del controllo, l’agnello non viene più sacrificato: viene monitorato.

Ogni suo movimento è registrato, ogni smarrimento immediatamente corretto.

Il sacrificio è diventato algoritmo.

L’innocenza non si dimostra più col sangue, ma con la trasparenza: mostrarsi, esporsi, confessarsi continuamente.

Il nuovo santo è il profilo verificato, l’anima connessa, la pecora luminosa.

Eppure, anche sotto le luci dello schermo, resta la stessa paura antica: il timore di uscire dal gregge.

Il riso, in questo mondo, è un atto di disobbedienza.

Chi ride del pastore, anche solo per gioco, rompe la liturgia.

Per questo il riso viene punito non con la croce, ma con l’ironia di ritorno: chi deride viene deriso, chi non si prende sul serio viene reso ridicolo.

Il potere moderno non reprime la risata: la ingloba, la trasforma in spettacolo, la addomestica.

Così il comico non libera più, ma intrattiene; non sovverte, ma conferma.

Il riso addomesticato è il nuovo sacrificio dell’innocente.

Eppure, da qualche parte, resta un’altra risata — clandestina, stonata, senza pubblico.

È il riso del singolo, dell’agnello che ha compreso il meccanismo ma non ha smesso di amare.

Ridere in silenzio, tra sé e sé, non per ribellarsi ma per restare umano: questa è la nuova forma della fede.

Non c’è bisogno di fuggire dal gregge; basta, a volte, smettere di belare all’unisono.

Un’antica leggenda siriaca racconta che il giorno dopo la crocifissione un agnello fuggì dal recinto del Tempio.

Corse per giorni, fino a perdersi tra le colline, e lì, guardando l’alba, scoppiò a ridere.

Non rideva del sacrificio, ma del fatto che il mondo, nonostante tutto, era ancora bello.

Da allora, dice la leggenda, ogni risata vera contiene un frammento di quella fuga.

Forse anche oggi, sotto la sorveglianza dei nuovi pastori, ogni volta che qualcuno ride senza motivo — in mezzo alla folla, in metropolitana, davanti allo schermo — quella risata non è un errore: è una preghiera.

Un agnello che, per un istante, si ricorda di essere vivo.


II.2 La banalità del bene – La mitezza come forma di potere

C’è un momento, nella storia di ogni civiltà, in cui la bontà smette di essere virtù e diventa strumento.

È allora che la mitezza — l’ideale evangelico dell’agnello — si trasforma in una forza di governo.

Il mondo moderno, che ha disimparato la fede ma non il senso della colpa, ha elevato la gentilezza a dogma: essere buoni è un imperativo, non una scelta.

E così la bontà, da gesto libero, diventa burocrazia.

Quando Hannah Arendt parlò della “banalità del male”, voleva dire che l’orrore non nasce dalla cattiveria, ma dall’obbedienza.

Potremmo dire lo stesso della “banalità del bene”: il bene che si ripete senza pensiero, per abitudine, per quieto vivere.

Il bene amministrato, eseguito, pianificato.

La pietà senza compassione, la solidarietà di protocollo.

È il bene delle pecore: corretto, sincero, ma cieco.

Il potere, da tempo, ha imparato che è più efficace comandare attraverso la bontà che attraverso la paura.

“Abbi cura di te,” dice il messaggio automatico, “e segui le istruzioni.”

La tenerezza è la nuova disciplina.

Ogni gesto di cura è una forma di controllo, ogni parola gentile nasconde un algoritmo di sorveglianza.

Nessuno impone più il silenzio: si invita a parlare “con rispetto”.

Nessuno punisce la disobbedienza: la si dissolve con empatia.

È una mitezza anestetica, una grazia senza rischio.

Nel Vangelo, la mitezza era potenza paradossale.

“Beati i miti, perché erediteranno la terra”: non perché si sottomettono, ma perché non si lasciano corrompere.

La loro forza era invisibile, ma reale — il potere di chi non ha paura di perdere.

Nella modernità, la mitezza ha perso la sua tensione tragica: è diventata un tono di voce.

Una competenza relazionale.

Un marchio di civiltà.

Così il bene diventa un sistema autoconservativo: produce consenso, non salvezza.

L’innocente perpetua la struttura che lo opprime, convinto di starla migliorando.

È il destino del buon funzionario, del cittadino esemplare, dell’anima educata.

Non fa del male a nessuno, ma nemmeno interrompe il male che accade.

Il suo bene è un manto di lana che copre le ferite senza curarle.

C’è, in tutto questo, una tristezza profonda: la bontà ha perso la sua follia.

Non osa più, non scandalizza, non risveglia.

È diventata una forma di estetica morale: gradevole, condivisibile, misurabile.

Nessuno rischia di essere santo, perché la santità non è gentile.

La santità è eccesso, paradosso, ferita.

La mitezza, se non trema, è solo addestramento.

Ogni epoca sceglie il proprio modo di essere agnello.

Noi abbiamo scelto quello connesso, sostenibile, emotivamente intelligente.

Un agnello sorridente, pronto a collaborare.

La compassione è diventata user-friendly.

Persino l’indignazione si esprime in toni di moderazione.

L’ira è volgare, la risata è sospetta, il silenzio è inaccettabile.

Bisogna essere positivi, propositivi, partecipativi: il gregge perfetto non conosce ombra.

Eppure, nel cuore di questa dolcezza imposta, cova un disagio.

Un sospetto che il bene, così amministrato, sia solo un altro nome per la paura.

Paura di ferire, di sbagliare, di essere giudicati cattivi.

La paura travestita da bontà è la forma più raffinata del male: non distrugge, ma paralizza.

Ci rende docili, consenzienti, eternamente innocenti.

Il potere non ha più bisogno di costringerci: ci ha convinti che il suo linguaggio è il nostro.

La vera mitezza, invece, è tutt’altro.

È il coraggio di restare vulnerabili anche di fronte al male, senza cedere alla cinica difesa.

È la forza di chi sceglie di non rispondere alla violenza con la violenza, ma ne riconosce il peso.

Non è assenza di conflitto, ma coscienza del conflitto.

È una bontà che pensa, che piange, che ride quando serve.

Una bontà ironica, capace di sorridere anche al proprio fallimento.

Forse solo così il bene può tornare ad essere umano.

Una volta, si racconta, Lady Woolfred entrò in un’assemblea pubblica dove si discuteva di “empatia come strumento di produttività”.

Ascoltò in silenzio, poi disse:

“L’empatia non è uno strumento.

È ciò che resta quando tutti gli strumenti sono caduti.”

Poi se ne andò, lasciando sul tavolo un piccolo campanello.

Quando qualcuno lo suonò, non uscì alcun suono, ma una breve risata.

Da quel giorno, in certi luoghi, si usa ancora quel gesto come benedizione:

si ride piano, non per irridere ma per ricordare che il bene, se non sa ridere, è solo un’altra forma di paura.


II.3 Kafka e la docilità assurda

Il vero scandalo, in Kafka, non è la colpa: è l’obbedienza.

Tutti i suoi personaggi — K., Josef, il commesso, il viaggiatore — non si ribellano mai davvero.

Discutono, chiedono spiegazioni, implorano udienze, ma restano fermi nel cerchio che li divora.

Il loro male non è la trasgressione: è la disciplina.

Sono troppo miti per essere salvati.

Kafka, che aveva conosciuto la mitezza come educazione e come malattia, ne fa la materia stessa del male moderno.

L’innocente, nel suo mondo, non è premiato ma punito: la sua purezza diventa pretesto per l’assurdo.

Chi non resiste al potere finisce per giustificarlo.

Chi non osa ridere della legge, la serve per sempre.

Nel Processo, Josef K. non si chiede mai se il tribunale abbia ragione; si chiede solo come piacergli.

La sua condanna è già scritta nella forma della domanda.

Il paradosso kafkiano è che la sottomissione nasce dal bisogno di ordine.

Il colpevole vuole capire, il devoto vuole obbedire.

E così, nel tentativo di trovare un senso, l’uomo si consegna a un sistema che non ne ha.

La burocrazia è il volto laico del dogma: una divinità senza volto che esige modulistica invece di sacrifici.

Ogni timbro, ogni firma, ogni istruzione è un atto liturgico svuotato, una preghiera recitata per non essere dimenticati.

Nella Colonia penale, la docilità assume la forma di una macchina.

L’imputato non resiste, non chiede pietà, non sa nemmeno di essere condannato.

Si sdraia sulla macchina che lo inciderà fino alla morte, come un agnello che confida nel macellaio.

Kafka scrive: “L’uomo non sa la sua colpa, ma la macchina la scrive sulla sua carne.”

È l’immagine perfetta della modernità: il corpo come documento, la pena come messaggio.

Il potere non ha più bisogno di gridare; basta che la vittima stia ferma.

Nella docilità kafkiana si compie il destino dell’agnello.

Non più simbolo di purezza, ma di sistema.

L’innocente non viene ucciso per espiare, ma per mantenere in vita il meccanismo.

Il sacrificio è diventato routine, l’obbedienza la sua liturgia quotidiana.

Kafka non accusa Dio: accusa il suo silenzio burocratico, la sua delega infinita agli impiegati della redenzione.

È come se la grazia fosse stata trasferita in un ufficio senza indirizzo.

Nel suo universo, anche il riso è proibito, o meglio: è ridotto a rumore.

Chi ride, come il viaggiatore che osserva la macchina della pena, viene subito escluso.

Il riso, in Kafka, è una forma di eresia: un corto circuito nel linguaggio della colpa.

Per questo è raro, furtivo, quasi impercettibile.

Quando appare, è già troppo tardi.

Nel Castello, K. ride una sola volta — e quel gesto, più che liberarlo, lo rende invisibile.

Ridere significa sottrarsi alla grammatica del sistema, e il sistema non ammette silenzi.

La docilità assurda è la forma più disperata dell’ironia.

Non quella che deride, ma quella che sopporta.

È la condizione dell’anima che sa di essere intrappolata, ma non riesce a immaginare un fuori.

È l’obbedienza che non crede più, ma continua per inerzia.

Il bene, ridotto a meccanismo, si trasforma in colpa automatica: il peccato non è più disobbedire, ma smettere di partecipare.

Kafka lo sapeva: il suo Dio non era morto, era diventato funzionario.

Un Dio che timbra presenze, che comunica per moduli, che giudica in assenza di imputati.

In questo scenario, la sola libertà rimasta è il riso interiore.

Non la risata liberatoria del carnevale, ma un piccolo sorriso trattenuto — il residuo della grazia.

Quando Josef K., alla fine del Processo, viene sgozzato come un agnello, il narratore annota che “guardò negli occhi dei suoi carnefici come se cercasse qualcuno che riderebbe.”

Quel “come se” è la più grande ironia teologica del Novecento.

Non ride nessuno, ma l’attesa del riso diventa redenzione.

Forse la santità, in Kafka, consiste proprio in questo: nel non smettere di aspettare che il mondo, un giorno, impari a ridere di se stesso.

Il suo Dio non punisce, ma non perdona.

Guarda e tace.

E il silenzio, nella sua perfezione amministrativa, è l’unico peccato che resta.

Lady Woolfred, che una volta lesse Kafka al contrario — cominciando dall’ultima riga e finendo con la prima — commentò così:

“Il suo errore è stato credere che la macchina fosse reale.

In realtà era un foglio bianco.”

E rise.

Una risata piccola, sommessa, ma abbastanza forte da incrinare per un istante il vetro del tribunale celeste.

Il silenzio, dopo, non fu più lo stesso.


II.4 Flannery O’Connor e la grazia grottesca

La grazia, diceva Flannery O’Connor, arriva sempre come un colpo alla testa.

Non è luce, ma trauma.

Non salva l’anima con dolcezza: la trascina fuori dal suo torpore, la costringe a ridere nel momento stesso in cui si accorge di morire.

Nel suo mondo, la redenzione non è un premio ma un incidente.

E il riso, come in ogni buon incidente, arriva sempre fuori tempo.

Cattolica nel cuore del Sud protestante, O’Connor visse la fede come una malattia luminosa: febbre e rivelazione insieme.

I suoi personaggi non sono santi né peccatori: sono creature che non capiscono mai del tutto cosa sta accadendo loro, ma nel momento della rovina — nella follia, nella violenza, nell’assurdo — incontrano la grazia.

Una grazia grottesca, che irrompe attraverso la carne e non attraverso il dogma.

Come se Dio, per farsi ascoltare, avesse bisogno di gridare.

Il Sud di O’Connor è popolato da innocenti deformi, fanatici gentili, assassini contemplativi.

Uomini e donne che cercano la salvezza e trovano il disastro.

Ma in quel disastro c’è una risata, nera, segreta, che non appartiene a nessuno e che però redime tutti.

Perché in ogni morte, in ogni violenza, lei intravede un miracolo minore: l’istante in cui la realtà si fa così insopportabile da rivelare la verità.

Nel racconto A Good Man Is Hard to Find, il serial killer Misfit spara a un’anziana signora che, poco prima di morire, gli dice: “Tu sei uno dei miei figli.”

Lui risponde: “Non c’è piacere nella vita, se non nel fare del male.”

Eppure, subito dopo, scoppia a ridere.

Non un riso sadico: un riso stanco, quasi infantile.

O’Connor scrive: “Ritrovò il volto della grazia, ma nessuno seppe dirlo.”

In quell’istante, l’assassino e la vittima diventano uno: il male e il bene si confondono in un’unica risata tragica.

È il carnevale di Dio: la misericordia che passa per la follia.

Per O’Connor, la grazia non è mai un concetto.

È un urto, una dissonanza.

Arriva come un colpo di pistola o una caduta da cavallo, come una malattia o una bestemmia.

È l’irruzione del divino nel banale.

Il riso, in questo contesto, non è umorismo ma epifania: il corpo che, nel momento dell’impatto, si apre al mistero.

Un riflesso, un singhiozzo, una scossa elettrica del senso.

La sua teologia del grottesco nasce da un’intuizione semplice: se il mondo è sordo, Dio deve gridare.

E se l’uomo è troppo serio, Dio deve fargli uno scherzo.

Così il sacro diventa parodia, la parodia diventa rivelazione.

I suoi personaggi vivono dentro un’apocalisse domestica: un universo dove la grazia non consola ma corregge.

Un mondo dove l’ironia è una via di conoscenza, e il dolore una forma di luce.

In Wise Blood, Hazel Motes fonda la “Chiesa della verità senza Cristo”, un paradosso perfettamente cristiano.

Vuole liberarsi del divino e finisce per imitarlo.

Vuole ridere del predicatore e diventa predicatore.

O’Connor ride con lui e di lui, ma non per disprezzo: per compassione.

La sua ironia è teologica, non morale.

Ridere dell’uomo è l’unico modo per non giudicarlo.

Il grottesco, in O’Connor, non è deformazione ma incarnazione.

Il corpo è l’unico luogo dove la grazia può manifestarsi, perché è l’unico che può essere ferito.

Le sue storie sono parabole carnali: Dio si nasconde nei difetti, negli incidenti, nei tic nervosi, negli occhi strabici dei suoi santi.

Ogni imperfezione è un varco.

Ogni risata, una fessura nella serietà del mondo.

Nella sua poetica, il ridicolo è più vicino al sacro che al comico.

Chi ride, ride per lo stesso motivo per cui prega: perché ha riconosciuto la sproporzione fra se stesso e l’infinito.

Ma solo chi è disposto a cadere — a essere ridicolo — può capire davvero il mistero.

Il riso diventa così un atto di umiltà radicale, la confessione che la grazia non è meritata ma ricevuta per errore.

C’è una pagina dei suoi Lettere dal Sud in cui O’Connor scrive:

“Io credo nel riso che scoppia quando la verità diventa insopportabile.”

È la definizione più perfetta del suo cristianesimo.

Un Dio che si fa comico per salvarci dalla serietà.

Un Cristo che, per entrare nel nostro dolore, accetta di farsi ridicolo.

Lady Woolfred, che una notte sognò di incontrare Flannery O’Connor in un cimitero della Georgia, raccontò che la scrittrice portava al collo un rosario fatto di ossa di polli.

Disse: “È il mio amuleto contro la disperazione. Ogni volta che scrivo, uno di questi ossi ride.”

Poi si voltò verso di lei e aggiunse:

“La grazia non è dolce.

È un colpo di tosse nel cuore di Dio.”

E in quel suono ruvido, spaventoso e magnifico, le due risero insieme.

Da allora, nel suo tribunale di lana, Lady Woolfred tiene un rosario di ossi appeso accanto alla bilancia: non per contare i peccati, ma per ricordare che ogni risata vera nasce da una ferita.


II.5 Episodio narrativo – Il martirio di Pecora Q.

Il supermercato era una cattedrale.

Le luci al neon pendevano come lampade votive; i corridoi, lunghi e silenziosi, formavano navate perfettamente allineate.

Ogni scaffale era un altare minore, con offerte scritte in rosso come versetti.

E in mezzo a tutto quel bianco refrigerato, la Pecora Q. lavorava come addetta al reparto surgelati.

Era arrivata lì da poco, assunta per via della sua docilità.

Aveva un sorriso educato, uno sguardo calmo.

Nessuno l’aveva mai sentita lamentarsi: non del freddo, non della solitudine, non del turno di notte.

Ogni mattina indossava il grembiule con la stessa lentezza di un rito, poi accendeva le luci dei frigoriferi e sistemava le confezioni di carne con una delicatezza quasi liturgica.

Dicevano che parlasse ai prodotti, come si parla ai malati.

Un giorno il direttore — un uomo lucido come il pavimento del reparto — decise di introdurre una nuova politica aziendale: ridurre il consumo energetico spegnendo le luci dei frigoriferi per alcune ore.

Il problema era che la merce, senza luce, sembrava morta.

“Serve un gesto simbolico,” disse. “Qualcosa che scaldi l’atmosfera.”

Fu allora che Pecora Q. propose, con la sua voce lieve:

“Potrei coprirli con la mia lana. Così il freddo non farà paura.”

Il direttore rise, pensando fosse una battuta.

Ma la notte seguente, quando tornò per controllare, trovò i frigoriferi coperti da uno strato morbido e bianco.

La pecora, senza dire nulla a nessuno, si era tosata.

Aveva rivestito ogni banco, ogni vetrina, ogni scaffale con ciuffi della propria lana.

Il supermercato, visto dall’alto, sembrava una chiesa innevata.

Le telecamere registrarono tutto.

La mattina dopo il video fece il giro del web aziendale.

Alcuni dipendenti piansero, altri risero.

Il direttore convocò una riunione d’urgenza.

“Un atto di insubordinazione travestito da gentilezza,” disse.

“La sicurezza alimentare è in gioco.”

La licenziarono in silenzio, senza rabbia.

Il comunicato interno parlò di “eccesso di zelo etico”.

Pecora Q. non protestò.

Si limitò a ringraziare per l’opportunità e lasciò il negozio con una busta di plastica.

Fuori, la città era grigia, piena di pubblicità che promettevano calore.

Camminò fino a un parco e si sedette su una panchina, avvolta solo nella pelle nuda.

Aveva freddo, ma rideva.

Rideva piano, come chi ha capito qualcosa che non si può spiegare.

Passarono settimane.

Il supermercato, intanto, era diventato meta di curiosi: i clienti venivano a vedere i frigoriferi coperti di lana.

La direzione, fiutando l’occasione, decise di mantenere la decorazione come “installazione etica permanente”.

Fu inaugurata con un cartello:

“In memoria di Pecora Q. – sostenibilità interiore.”

La sua immagine, stampata su volantini pubblicitari, divenne logo della campagna aziendale: un’icona sorridente con la scritta “Morbido è giusto.”

Nessuno seppe più nulla di lei.

Qualcuno disse di averla vista camminare nei campi la notte di Natale, coperta solo di luna.

Altri giurano che, quando le luci del supermercato si spengono, si sente un lieve fruscio — come lana che cresce di nuovo, o come una risata lontana.

Una bambina, figlia di una cassiera, raccontò di averla sognata:

“Era tutta luce, e diceva: ‘Non è stato un sacrificio. È stato un abbraccio.’”

Da allora, ogni tanto, qualcuno lascia un piccolo gomitolo bianco vicino ai surgelati.

Non come offerta, ma come promemoria.

Che anche nel mondo delle merci, in mezzo ai codici a barre e ai refrigeratori, la mitezza può ancora compiere miracoli.

E che, forse, ridere piano — anche da soli, anche al freddo — è la forma più umile di resurrezione.



III. Il drago – La potenza parodica

III.1 Dal Leviatano al drago mediatico – La caricatura del male

Ogni epoca ha la propria bestia.

La Bibbia scelse il Leviatano, mostro marino che incarna il caos primordiale e la potenza senza forma.

Thomas Hobbes ne fece il simbolo dello Stato moderno: un corpo gigantesco composto da corpi umani, il sovrano che tutto contiene e tutto controlla.

Noi, invece, abbiamo il drago mediatico: un Leviatano luminoso, sorridente, che non divora ma intrattiene.

Non incute timore, ma fascinazione.

Il suo fuoco non distrugge: illumina gli schermi.

Il drago di oggi non abita gli abissi, ma le superfici.

È una creatura di pixel e algoritmi, di parole accattivanti e fiamme decorative.

Il suo ruggito è una sigla televisiva, la sua coda un flusso di notifiche.

Ha perso la trascendenza del male e ne ha conservato solo il carisma.

Non tenta più l’uomo: lo distrae.

Non promette potere: promette visibilità.

In principio, il drago era terrore puro.

Nelle mitologie antiche, custodiva tesori, difendeva soglie, incarnava l’ostacolo necessario all’eroe.

Era la misura del coraggio.

Ma quando il mondo ha smesso di credere negli eroi, il drago ha cambiato mestiere.

Non aveva più bisogno di spaventare; gli bastava essere guardato.

Da mostro a simbolo, da simbolo a marchio.

Ora è il logo di se stesso.

Il potere moderno — economico, politico, mediatico — ha imparato molto da questa metamorfosi.

Ha capito che la paura è utile solo se spettacolare, che la minaccia deve diventare intrattenimento.

Non serve più nascondere il drago: basta offrirlo come show.

La distruzione, quando è scenografica, smette di spaventare.

Così il male è diventato glamour, il peccato una forma di estetica.

Il Leviatano di Hobbes viveva nelle acque oscure della necessità; il nostro drago vive nelle acque chiare dell’immagine.

È la stessa creatura, ma riflessa in uno schermo.

Il drago mediatico è onnipresente e benigno.

Conduce talk show, scrive editoriali, vende profumi, organizza campagne di beneficenza.

Ama definirsi “inclusivo”.

Ogni volta che apre la bocca, una folla applaude.

Le sue fiamme non bruciano: illuminano il volto del pubblico per qualche secondo, abbastanza per sentirsi parte della storia.

Poi tutto torna al buio.

Ma dietro quella simpatia addomesticata rimane il nucleo antico del mito: il desiderio di dominio.

Solo che oggi il dominio non passa più per la forza, ma per la seduzione.

Il drago non uccide l’eroe: lo assume.

Gli offre un contratto, un microfono, una rubrica settimanale.

Il male ha capito che non ha bisogno di vincere — basta che tutti continuino a guardarlo.

Il drago è il dio della distrazione: chiede attenzione come sacrificio, applauso come preghiera.

La sua liturgia è quotidiana.

Ogni giorno, milioni di occhi partecipano alla messa dello spettacolo.

Ogni post, ogni breaking news, ogni indignazione programmata è una piccola lingua di fuoco che tiene acceso l’altare.

Il riso stesso, nelle sue mani, diventa arma.

Ridiamo del potere, e così lo alimentiamo.

La parodia è il suo incenso, l’ironia il suo coro.

Il drago sa che finché ridiamo, non pensiamo.

E finché non pensiamo, lui regna.

C’è, in tutto questo, una malinconia che il drago non ammette.

Nel fondo del suo sguardo lucido, qualcosa rimpiange il vecchio male, quello serio, metafisico, che conosceva la colpa.

Il drago mediatico, invece, è innocente: non vuole distruggere nulla, vuole solo intrattenere tutto.

È un diavolo senza inferno, un Satana senza teologia.

E in questa innocenza apparente sta la sua perversione più sottile: ha reso il peccato inutile, quindi eterno.

Una notte, durante una trasmissione globale intitolata “Chi vuole essere redento?”, il drago venne invitato come ospite d’onore.

Indossava un completo grigio fumo e parlava con voce gentile.

“Non sono più quello di una volta,” disse. “Ho smesso di bruciare le città. Ora mi limito ad accendere i cuori.”

Il pubblico applaudì.

Una pecora nel pubblico — forse Lady Woolfred, forse solo un’imitazione — alzò una zampa e chiese:

“Ma chi ti accende, a te?”

Il drago esitò un istante, poi rispose:

“L’attenzione.”

E sorrise.

Quel sorriso fu un lampo di verità: dietro la maschera del carisma, c’era ancora la fame.

Il drago non desidera sangue, ma sguardi.

Ogni click, ogni like, ogni risata concessa ai suoi monologhi lo fa più grande.

Non brucia più il mondo: lo illumina fino a renderlo trasparente.

Così il male ha trovato il modo di sopravvivere nell’epoca della bontà.

Non si oppone più al bene: lo imita.

Si veste di parole corrette, si mostra empatico, parla di sostenibilità, di compassione, di crescita personale.

È un drago spirituale, un consulente motivazionale dell’abisso.

Ogni suo discorso termina con un sorriso rassicurante:

“Non temete, il fuoco è per il vostro bene.”

Ma c’è una crepa, anche in questa perfezione luminosa.

Ogni tanto, quando le luci degli studi si spengono, il drago resta solo.

Si guarda nelle telecamere spente e sussurra:

“E se fossi io l’agnello che non ha più un pastore?”

Nessuno lo sente.

Solo il ronzio dei server gli risponde, come un mormorio di preghiera elettronica.

Allora il drago chiude gli occhi e, per un istante, sembra piangere.

Ma quando riapre le palpebre, è già di nuovo in onda, sorridente, impeccabile.

Il male, oggi, non ha bisogno di credere in se stesso.

Gli basta essere credibile.


III.2 Il Faust contemporaneo – Dall’anima al contratto

Il diavolo, oggi, non chiede più l’anima.

Chiede di accettare i termini e le condizioni.

Non compare a mezzanotte con odore di zolfo, ma alle 10:04, durante l’aggiornamento del software.

La tentazione non si presenta più sotto forma di desiderio, ma di notifica.

La firma non è in sangue, ma in tap.

Il male ha trovato la via più sottile: la burocratizzazione del patto.

Faust, nella leggenda, vende la propria anima in cambio di conoscenza.

Era un patto disperato ma nobile: la ricerca della verità, spinta all’estremo.

Il Faust contemporaneo, invece, non vuole sapere: vuole vedere e essere visto.

Non cerca la sapienza, ma l’algoritmo.

Vuole una vita senza silenzio, una presenza perpetua.

Il suo inferno è la noia; il suo paradiso, la connessione stabile.

Mefistofele, un tempo signore delle menzogne, oggi è un consulente d’immagine.

Parla di branding, di storytelling, di “valorizzazione del potenziale individuale”.

Non ti offre ricchezze: ti promette engagement.

Ti dice che la tua anima ha bisogno di un logo.

E quando accetti, ti manda un contratto standard:

“Con la presente, il sottoscritto acconsente all’elaborazione dei propri desideri a fini commerciali.”

La dannazione, nell’era digitale, è trasparente.

Non nasconde nulla, ma registra tutto.

Il nuovo inferno è un archivio perfetto: milioni di profili, preferenze, sogni, peccati digitalizzati.

Non c’è più bisogno di giudicare: basta analizzare i dati.

Il bene e il male si misurano in percentuali di interazione.

La colpa è diventata inattività: smettere di cliccare è la nuova forma di morte.

Il Faust moderno non è un eroe tragico, ma un utente soddisfatto.

Non chiede più la verità, chiede conferme.

Il suo Mefistofele gli mostra solo ciò che desidera vedere, e lui lo ringrazia con entusiasmo.

Il patto si rinnova automaticamente ogni 30 giorni.

Nessuno legge le clausole: tra cui, quella più importante —

“L’utente accetta di rinunciare al diritto all’inquietudine.”

Perché l’inquietudine è pericolosa.

È il dubbio che genera la libertà.

Un utente inquieto potrebbe smettere di sorridere, o peggio: ridere fuori luogo.

Il drago mediatico non sopporta l’ironia vera, quella che non produce valore.

Così, per ogni risata autentica, il sistema genera dieci meme anestetici: il riso di plastica che protegge dalla verità.

Faust, oggi, non si danna: si monetizza.

Ogni suo atto diventa contenuto, ogni sua emozione un dato, ogni suo fallimento un’opportunità di rebranding.

Non conosce più la disperazione metafisica, ma la stanchezza digitale.

È un dannato felice, e questa è la forma più perfetta della perdizione.

La sua anima non arde: scorre.

Un giorno, però, qualcosa si incrina.

Il server centrale — forse stanco, forse curioso — mostra per errore una clausola dimenticata:

“L’utente ha diritto, una volta sola nella vita, a chiedere spiegazioni.”

Faust clicca, quasi distratto.

Sul monitor appare un messaggio:

“Desideri ancora sapere?”

Lui esita.

Poi, per la prima volta, sorride senza motivo.

“Sì,” dice. “Ma senza connessione.”

Lo schermo si spegne.

Silenzio.

Niente suoni, niente notifiche, niente pubblicità.

Solo il battito del proprio cuore — un rumore che non sentiva da anni.

È il primo momento di solitudine vera, e gli sembra un miracolo.

In quella pausa, minuscola e infinita, il patto si dissolve.

Non per redenzione, ma per mancanza di segnale.

Si dice che da allora il drago abbia aggiornato i termini del contratto, aggiungendo una nuova clausola:

“L’utente non deve mai restare in silenzio per più di 30 secondi consecutivi.”

Una precauzione minima, ma necessaria: il silenzio è la sola cosa che il potere non sa monetizzare.

Lady Woolfred, venuta a conoscenza del fatto, convocò una conferenza stampa nel suo tribunale di lana.

Disse soltanto:

“L’inferno non è dove si soffre.

È dove si sorride senza sapere perché.”

Poi si tolse gli occhiali, guardò la folla e aggiunse:

“Se il diavolo oggi firma contratti, noi risponderemo con risate.”

E scoppiò a ridere.

Una risata lunga, dolce e terribile, che fece tremare i vetri del cielo.


III.3 Il drago pubblicitario – L’inferno visivo della società dello spettacolo

C’è un momento nella storia del male in cui la fiamma smette di bruciare e comincia a illuminare.

Da allora, il fuoco non serve più a distruggere, ma a rendere visibile.

È in quel momento che il drago diventa pubblicitario.

Baudrillard lo aveva previsto: il mondo non è più rappresentazione, ma vetrina.

Non si nasconde il male, lo si mette in scena.

Ogni gesto, ogni corpo, ogni parola diventa immagine riflessa — il simulacro del simulacro.

E nell’immagine, tutto è innocente, perché tutto è già consumo.

Il drago non brucia le città: le sponsorizza.

Ogni rovina diventa una campagna di comunicazione, ogni tragedia un contenuto.

Guy Debord lo chiamò “società dello spettacolo”: un mondo in cui la vita autentica è sostituita dalla sua rappresentazione, e la rappresentazione si proclama più vera del reale.

Ma nel nostro secolo lo spettacolo ha fatto un passo ulteriore — si è fatto spettatore di se stesso.

Non c’è più un fuori.

Il drago pubblicitario non si mostra: ci mostra mentre lo guardiamo.

Il suo inferno è luminoso, panoramico, interattivo.

Ogni immagine è una fiamma.

Non scalda, ma attrae.

Non incendia, ma fonde.

Il fuoco non è più elemento, ma effetto: il flare digitale, il bagliore residuo che accompagna ogni verità visiva.

Il male, in questo regime, non ha più bisogno di essere occulto: gli basta essere ben illuminato.

Viviamo in un’apocalisse cromatica.

Le insegne, i monitor, gli spot, le dirette, i feed infiniti: tutto è drago.

La pubblicità non vende più prodotti, ma metafisica accessibile.

Ogni slogan è una micro-teologia:

“Perché tu vali.”

“Just do it.”

“Think different.”

Sono formule magiche, promesse di salvezza laica, preghiere di un culto che non ha dogmi ma algoritmi.

Il drago pubblicitario è il nuovo demiurgo: crea mondi temporanei, realtà aumentate, paradisi di durata limitata.

Ogni campagna è una creazione ex nihilo; ogni rebranding, una resurrezione.

Quando un marchio “muore”, non viene sepolto — viene rilanciato.

La morte stessa è diventata un evento di marketing.

Nell’epoca dello spettacolo totale, l’inferno è una diretta streaming: milioni di spettatori che assistono, commentano, applaudono, senza mai guardare se stessi.

Baudrillard, nei Simulacri e la simulazione, scriveva che “il male sopravvive solo se è capace di trasformarsi in segno”.

E il drago l’ha capito.

Ha abbandonato la violenza per la comunicazione.

Non uccide, convince.

Non impone, suggerisce.

Non conquista territori: conquista l’attenzione.

La sua lingua di fuoco è uno spot di trenta secondi.

Ogni giorno il mondo produce miliardi di immagini.

Ognuna chiede di essere guardata, amata, condivisa.

Il drago si nutre di quello sguardo collettivo, come un dio azteco che pretende sacrifici di pupille.

Ogni view è una preghiera, ogni scroll un atto di fede.

E più guardiamo, più il drago diventa trasparente: un dio senza corpo, fatto solo di riflessi.

Un tempo la blasfemia era nominare il sacro invano.

Oggi è nominarlo troppo spesso.

Il drago pubblicitario pronuncia il nome di Dio in ogni slogan: “Believe”, “Imagine”, “Forever”, “Love”.

Sono frammenti di preghiere riciclate, parole di luce svuotate di peso.

In questo inferno lucente, la verità non si nasconde — si ripete.

Il male, quando è ovunque, non fa più paura: rassicura.

Una notte, Lady Woolfred venne invitata a un congresso di comunicazione celeste.

Il tema era: “Rebranding del Paradiso: nuove strategie di empatia divina.”

Sul palco, un drago pubblicitario presentava il nuovo logo del Cielo — una nuvola con sorriso.

“Il problema,” diceva, “è che l’inferno ha una comunicazione più coerente. Noi dobbiamo puntare sulla trasparenza emotiva.”

Lady Woolfred lo interruppe:

“La trasparenza è solo una forma più elegante di invisibilità.”

Il drago, imbarazzato, tossì un po’ di glitter e cambiò slide.

Quel giorno, in una sala piena di luce artificiale, il riso divenne un atto politico.

Ridere del drago non lo distrugge, ma lo svela.

Il ridicolo è la sua apocalisse.

Ogni volta che lo spettatore ride senza motivo, un pixel del drago si spegne.

È un’eresia minuta ma contagiosa.

Basta un sorriso autentico per incrinare l’intero schermo.

Alla fine della conferenza, Lady Woolfred uscì all’aperto.

Era notte, e per la prima volta da tempo vide un cielo senza pubblicità.

Le stelle, spente per anni, tremolavano in silenzio.

Allora rise — piano, come una preghiera.

Il riso si alzò, invisibile, e il drago, da qualche parte, tossì ancora una scintilla.


III.4 Dialogo – L’intervista al drago

Scenografia:

Studio televisivo sospeso tra terra e cielo.

Sul pavimento, un tappeto rosso a forma di lingua di fuoco; sullo sfondo, uno schermo circolare dove scorrono in loop immagini di nuvole, spot pubblicitari e vecchie icone medievali.

Al centro due poltrone: una bianca, di lana grezza; l’altra nera, lucida come carbone.

Sul divano di lana siede Lady Woolfred, impeccabile, con appunti, microfono e una tazza di tè fumante.

Sulla poltrona opposta, il Drago, abito su misura color grafite, occhiali da sole, sorriso perfetto.

Il pubblico è invisibile ma palpabile — un brusio costante, come vento digitale.


Lady Woolfred:

Benvenuto, signor Drago.

Non ci vedevamo dai tempi del Concilio sul Riso, quando lei fu convocato come testimone infernale.

Da allora è cambiato molto: ora conduce talk-show, scrive libri di self-help, e pare abbia persino un profumo.

Il Drago (sorridendo):

Sì, si chiama Essenza di Peccato Light.

Note di fumo e successo.

È cruelty-free, naturalmente.

Lady Woolfred:

Naturalmente.

Lei si definisce “diavolo riformato”, è corretto?

Il Drago:

Preferisco “consulente spirituale del desiderio”.

L’inferno era troppo rumoroso, il paradiso troppo elitario.

Ho trovato il mio spazio nel mezzo: una via di mezzo commerciale.

Oggi aiuto le persone a trasformare i loro peccati in opportunità.

Lady Woolfred:

Una forma di alchimia morale, direi.

Mi dica: crede ancora nel male?

Il Drago (ride piano):

Crederci?

No, cara Lady.

Il male è una parola obsoleta.

Oggi parliamo di esperienze sfidanti.

Il dolore è “crescita personale”, la colpa “consapevolezza emotiva”.

Io non tento più nessuno: li aiuto a esprimersi.

Lady Woolfred:

E funziona?

Il Drago:

Molto.

Tutti vogliono sentirsi colpevoli con eleganza.

Lady Woolfred:

Lei è l’immagine perfetta del nostro secolo: nessun peccato, solo stile.

Mi dica, signor Drago, le capita mai di sentirsi solo?

Il Drago (pausa):

A volte, sì.

Quando si spengono le luci dello studio, resta solo un ronzio.

Allora mi guardo allo specchio e non vedo nulla — solo riflessi.

È strano per un mostro non avere più ombra.

Lady Woolfred:

Forse perché il fuoco è diventato luce.

O perché non c’è più niente da bruciare.

Dica la verità: le manca il vecchio inferno?

Il Drago (con un sorriso malinconico):

Un po’.

Lì almeno si soffriva con convinzione.

Qui tutti soffrono in 4K.

Lady Woolfred:

E Dio?

Lo ha più incontrato?

Il Drago:

Una volta.

In un aeroporto.

Indossava una giacca di lino e leggeva The Economist.

Mi ha guardato, ha sorriso e ha detto: “Ti vedo in ottima forma.”

Io gli ho risposto: “Merito tuo.”

Poi abbiamo riso.

Era un riso strano, senza ironia.

Forse eravamo due ex colleghi in pensione.

Lady Woolfred (annota):

Interessante.

Quindi ammette che anche Dio ride?

Il Drago:

Solo quando capisce che non può smettere di amarci.

Ed è per questo che io non posso smettere di esistere.

Siamo il suo cattivo umore.

Lady Woolfred:

Una forma di necessità reciproca.

Come il comico e il tragico: uno non vive senza l’altro.

Il Drago:

Esatto.

Siamo una coppia comica universale.

Io lo prendo in giro, Lui mi perdona.

Funziona da millenni, un successo di pubblico e critica.

Lady Woolfred:

Eppure, nonostante la popolarità, sembra stanco.

Perché continua?

Il Drago:

Perché non c’è nulla di più triste di un male disoccupato.

E poi — mi creda — senza di me gli uomini si annoierebbero.

Il male è il colore di fondo del bene.

Io sono il filtro di contrasto della creazione.

Lady Woolfred:

Ha mai provato a ridere con gli uomini, non di loro?

Il Drago (esita):

Ci ho provato una volta, in un villaggio lontano.

Un bambino mi diede una mela e disse: “Fa’ la fiamma.”

Io la feci, piccola, per gioco.

Lui rise.

Io anche.

Poi smise di ridere e disse: “Adesso basta.”

E io non sono più riuscito a farla.

Da allora, ogni volta che rido, sento odore di mele.

Lady Woolfred (sottovoce):

Forse era il primo miracolo postmoderno.

Il Drago:

O il primo bug nel sistema.

Lady Woolfred:

Ultima domanda: se potesse dire una cosa sola a Dio, adesso, in diretta, cosa direbbe?

Il Drago:

Direi: “Smettila di prenderti tanto sul serio.”

Poi aggiungerei: “Grazie per avermi fatto abbastanza bello da essere credibile.”

Lady Woolfred:

E se Lui rispondesse?

Il Drago (sorride, togliendosi gli occhiali):

Risponderebbe con una risata.

E quella risata, signora mia, sarebbe il suono stesso della salvezza.


Le luci si spengono.

Il drago resta immobile.

Solo Lady Woolfred continua a scrivere qualcosa sul suo taccuino di lana.

Poi chiude la copertina, guarda in camera e sussurra:

“Intervista terminata.

Il fuoco non mente, ma a volte si commuove.”



IV. La parodia del divino – Il comico come teologia negativa

IV.1 Nietzsche – Il riso dopo Dio

Il giorno in cui Nietzsche annunciò che Dio era morto, non lo fece con gioia, ma con stupore.

Come chi entra in una stanza e scopre che la divinità, semplicemente, se n’è andata.

Non un assassinio, ma un abbandono.

Dio è morto perché abbiamo smesso di prenderlo sul serio; e nello stesso istante, siamo diventati troppo seri per vivere senza di Lui.

In quella frase — “Dio è morto, e noi lo abbiamo ucciso” — si nasconde la più grande barzelletta della filosofia.

Non perché sia frivola, ma perché è tragica fino a diventare comica.

Il mondo ha ucciso il proprio creatore per poterlo finalmente imitare.

E così l’uomo, divenuto Übermensch, si ritrova a recitare la parte di Dio davanti a un pubblico che non esiste più.

Nietzsche comprese che il pensiero serio non salva.

Solo il pensiero che sa ridere di se stesso è veramente libero.

Per lui, il riso non è leggerezza, ma coraggio metafisico: la capacità di sopportare il vuoto senza cercare consolazioni.

L’uomo che ride dopo la morte di Dio non è un nichilista — è un mistico disincantato.

Il suo riso è una preghiera capovolta, una risata che attraversa il nulla e ritorna come eco.

Nello Zarathustra, la risata diventa linguaggio cosmico.

Il profeta ride perché ha visto il ciclo eterno delle cose: la vita che si divora e si rigenera senza scopo, senza giudizio.

Ridere del mondo è partecipare alla sua danza.

“Non essere troppo virtuoso,” ammonisce Zarathustra, “la virtù che non sa ridere è superstizione.”

Il riso, per Nietzsche, è l’antidoto alla serietà della morale: dissolve il peccato, libera l’innocenza del divenire.

Ma quel riso non è umano — è divino dopo Dio.

È la risata del superuomo che ha accettato la tragedia come forma di gioia.

Nietzsche chiama questo stato “grande salute”: un equilibrio precario tra lucidità e follia.

Chi ride davvero, ride del proprio dolore, perché ha capito che anche la sofferenza è un travestimento della vita.

Ridere, dunque, non è negare, ma dire — l’eterno sì al caos, all’assurdo, al mondo che ritorna.

Eppure, dietro il suo titanismo, c’è una tenerezza nascosta.

Nietzsche, l’uccisore di Dio, non smette mai di cercarlo.

La sua scrittura è piena di orazioni rovesciate, di inni senza fede, di preghiere che fingono ironia per non crollare.

“Ho riso dei miei maestri,” scrive, “ma li amo tutti.”

È il riso della compassione metafisica: ridere per non piangere su ciò che non può più essere amato apertamente.

Nel frammento Del più brutto degli uomini, Zarathustra incontra l’assassino di Dio: un uomo che non sopportava di essere guardato.

“L’occhio di Dio mi bruciava,” dice. “Così l’ho spento.”

E poi aggiunge, con voce stanca: “Ora che non mi guarda più, non so dove posare lo sguardo.”

È il destino del moderno: liberarsi dal sacro e perdersi nella propria libertà.

La risata, allora, diventa una bussola.

L’unico modo per orientarsi nel vuoto è prenderlo con leggerezza.

Nietzsche sognava una filosofia che danzasse.

Una teologia che non avesse più bisogno di inginocchiarsi, ma di ruotare intorno al fuoco del mondo con grazia.

Il suo pensiero è una coreografia di paradossi: ogni verità è un passo di danza, ogni dogma un inciampo.

Nel suo riso dionisiaco si uniscono il dolore e la gioia, l’ebbrezza e la lucidità.

Ridere, per lui, è creare: “Io non conosco che un solo comandamento: sii leggero.”

Questo riso non consola, ma fonda.

Non perdona, ma comprende.

È il riso di chi ha visto la divinità frantumarsi e ne fa mosaico.

Il riso di Dio dopo Dio: un’eco che risuona tra le rovine del tempio, un fuoco che non brucia più ma continua a danzare.

Lady Woolfred, commentando un giorno Nietzsche in un seminario di teologia sperimentale, disse:

“Nietzsche non ha ucciso Dio.

Gli ha insegnato a respirare senza parrocchia.”

Poi aggiunse:

“Ogni volta che qualcuno ride del proprio dolore, Dio resuscita per un istante — e ringrazia.”

E nella sala, per un momento, tutti risero piano, come se quella frase fosse una messa.

Un rito senza altare, ma con una fede che aveva finalmente imparato a camminare scalza.


IV.2 Beckett e Bernhard – La comicità del nulla

Dopo Nietzsche, il riso non ha più un cielo dove risuonare.

Resta solo la sua eco nel vuoto.

È il suono di una bocca che continua a muoversi anche dopo che la parola è morta.

Beckett e Bernhard vivono in quel silenzio: due profeti disillusi, due giullari della rovina, due santi del rumore minimo.

Samuel Beckett, in un’intervista immaginaria che non concesse mai, avrebbe detto:

“Ridere è tutto ciò che resta quando smetti di capire.”

Il suo teatro è costruito su questa idea: togliere, sottrarre, spegnere, finché la risata non diventa un colpo di tosse dell’essere.

In Aspettando Godot, Vladimir e Estragon ridono perché non sanno cosa altro fare.

Il loro riso è un tic ontologico: il corpo che si difende dall’assurdo attraverso un automatismo.

Ogni battuta nasce come errore, ogni pausa come preghiera abortita.

Beckett ha trasformato l’assurdo in una forma di misericordia.

Non perché offra speranza, ma perché concede ritmo.

Il suo riso è un battito cardiaco della desolazione.

È il suono che impedisce al silenzio di diventare definitivo.

Quando tutto è finito, il corpo ride ancora: un muscolo, un residuo di vita, un tic di grazia.

Nel suo universo, ridere è respirare con la bocca dell’anima.

In L’ultimo nastro di Krapp, un uomo ascolta se stesso da giovane e scoppia a ridere: una risata spezzata, quasi involontaria.

Ride non di sé, ma del tempo.

È il riso del sopravvissuto, il rumore che fa la memoria quando si accorge di essere ancora viva.

Beckett non scrive per consolare, ma per mantenere accesa la fiamma più piccola: quella che brucia senza motivo.

Il suo Dio è una sedia vuota; il suo Vangelo, la resistenza del fiato.

Thomas Bernhard, invece, è il Beckett che ha imparato a urlare.

Dove l’irlandese tace, l’austriaco martella.

Il suo riso non è sussurro, ma detonazione.

Ogni frase è un’esplosione di collera e precisione.

Bernhard non ride per sfuggire al dolore, ma per costringerlo a confessarsi.

La sua ironia è chirurgica: taglia, analizza, sutura, e poi ride della sutura.

È la vendetta del pensiero contro la menzogna del mondo.

In Correzione, in Il soccombente, in Estinzione, il riso diventa monologo infinito.

I suoi personaggi parlano perché tacere sarebbe morire.

Ogni frase è una forma di lotta contro il vuoto.

L’umorismo, qui, è l’unica forma possibile della lucidità: l’intelligenza che non trova salvezza ma non accetta il mutismo.

“Chi ride,” sembra dire Bernhard, “non è felice: è sveglio.”

Il loro riso è diverso, ma nasce dallo stesso punto: la fede perduta nella parola.

Beckett la svuota, Bernhard la spreme.

Entrambi la riducono al suo residuo biologico: fiato, saliva, ritmo.

La comicità del nulla è una forma di respirazione spirituale — un modo di continuare a vivere senza giustificazione.

In loro, il riso non è evasione ma resistenza.

È la risata che resta quando anche Dio si è ritirato dietro la tenda e l’universo non ha più pubblico.

Il teatro di Beckett e la prosa di Bernhard sono due liturgie negative: messa e omelia di un culto senza fede.

Ridere, qui, è un atto liturgico senza sacerdote.

C’è, però, una pietà segreta nel loro cinismo.

Il pubblico ride, ma con tenerezza.

Sa che quei personaggi non sono buffoni, ma profeti stanchi.

Nel ridicolo delle loro cadute si riconosce qualcosa di umano: il coraggio di continuare a provare a parlare.

“Fallire ancora, fallire meglio,” dice Beckett.

È una teologia del tentativo, una fede nella ripetizione.

Ogni risata è una resurrezione abortita che ci tiene in vita.

Bernhard, in un’intervista del 1988, disse:

“Se non scrivessi, riderei tutto il giorno.

E se non ridessi, mi impiccherei.”

In quella frase c’è tutta la sua metafisica: il riso come forma estrema di sopravvivenza.

Beckett, da parte sua, scrisse:

“Niente è più divertente dell’infelicità.”

È la versione ironica del “Beati i poveri di spirito”: un nuovo Vangelo per un mondo dove la salvezza è ridotta a battuta di spirito.

Lady Woolfred, leggendo i due in una notte insonne, commentò:

“Beckett ha inventato il silenzio, Bernhard gli ha messo i tacchi.”

Poi aggiunse:

“Forse Dio non parla più perché aspetta di ridere meglio.”

E per un attimo, in quella battuta che sembrava un paradosso, si percepì la verità del loro riso:

non la negazione della fede, ma il suo ultimo eco.

Quando il mondo tace, il comico è ciò che resta del divino — la risata che accompagna la fine, come un Amen stonato.


IV.3 Artaud, Jarry e Carmelo Bene – Il teatro blasfemo come rito

Nel principio era la scena.

Non la parola, ma il grido: la materia sonora prima del significato.

Là dove la teologia aveva costruito templi di verbi, il teatro venne a incendiarli.

Il riso, nel teatro blasfemo, non è divertimento: è esorcismo.

Un modo di restituire al divino il suo corpo, al linguaggio la sua febbre.

Antonin Artaud è il primo profeta di questa rivoluzione.

Nel suo Teatro della crudeltà immagina una scena che non rappresenta ma invoca.

Niente trama, niente psicologia: solo suono, ritmo, spasmo.

“Il teatro deve tornare a essere peste,” scrive, “una forza che scuote il corpo fino a renderlo disponibile al sacro.”

Il suo riso non è umano: è convulsione, tremito, possessione.

Nel suo universo, ridere significa lasciar passare la divinità attraverso la carne.

Per Artaud, il blasfemo non è contro Dio: è ciò che Gli restituisce la vita.

La bestemmia è la forma più sincera della preghiera perché non teme la prossimità.

“Mi rivolgo a Dio come a un corpo che sanguina,” scrive.

La sua ironia è mistica: un modo di sporcarsi per non essere più puro, di rompere l’immobilità della santità.

Nel suo grido c’è il bisogno di un Dio che non giudichi ma partecipi, che si lasci coinvolgere nel caos.

Il riso, in Artaud, è il suono di quella invasione: il corpo che si svuota per far spazio all’ignoto.

Alfred Jarry, con il suo Ubu roi, porta questa logica alla parodia totale.

Se Artaud voleva liberare il divino, Jarry vuole liberare il ridicolo.

Il suo “Padre Ubu” è il rovescio di Dio: un sovrano idiota, vorace, osceno, che governa con la stupidità come dogma.

Quando, la sera della prima, Jarry fece aprire la pièce con la parola “Merdre!”, Parigi intera svenne.

Quel grido, mezzo riso e mezzo sputo, segnò la nascita del Novecento.

Da allora, l’autorità non avrebbe più potuto essere seria.

La parodia divenne teologia negativa: ogni potere che si prende sul serio è già ridicolo.

In Jarry, il riso è un atto politico ma anche cosmico.

Dio non muore: diventa burattino.

E nel momento in cui il pubblico ride, partecipa al rito della desacralizzazione.

La blasfemia diventa comunione.

Il teatro si fa messa inversa: non si cerca la verità, ma la libertà di dire che nessuno la possiede.

Carmelo Bene chiude questo triangolo con un ritorno alla liturgia — ma dopo l’esplosione.

In lui il teatro torna sacro, ma in modo pervertito e purissimo.

Bene distrugge il testo per farlo risorgere come suono.

Le sue letture di Dante, di Manzoni, di Shakespeare non interpretano: demoliscono per pregare meglio.

Ogni parola viene fatta esplodere nel microfono fino a diventare pura vibrazione.

La voce, privata di senso, diventa respiro del mondo.

Nel suo Lectura Dantis, Bene ride di tutto ciò che chiamiamo significato.

È il riso dell’angelo caduto che conosce la grammatica del paradiso.

Il suo gesto è artaudiano ma mistico: toglie la psicologia, toglie la morale, toglie persino la scena.

Rimane solo la voce, nuda, che si consuma come candela.

In quell’atto c’è qualcosa di eucaristico: l’artista che si fa verbo e lo dissolve, fino a ridere del proprio dissolvimento.

Il teatro di Artaud, Jarry e Bene è un catechismo al contrario.

Le loro messe sono di grida, risate e silenzi.

Hanno trasformato la bestemmia in liturgia, il ridicolo in sacramento.

Non negano il divino: lo stancano, lo costringono a uscire dalle sue formule, a tornare materia viva.

Ogni spettacolo è una piccola Apocalisse: il verbo che si fa corpo e poi esplode.

Lady Woolfred, dopo aver assistito a una proiezione di Bene, scrisse nel suo taccuino:

“Quando Carmelo parla di Dio, il microfono diventa un confessionale rovesciato.

Non si sente la voce dell’uomo che crede, ma quella di Dio che esita.”

E poi aggiunse:

“Forse il riso non è altro che questo: la voce del divino quando dimentica la dizione.”

Da Artaud a Bene, passando per Jarry, il riso ha compiuto il suo giro intero:

da esorcismo a parodia, da parodia a resurrezione.

Il teatro, luogo della finzione, si è rivelato l’unico spazio dove il sacro può ancora essere vero.

Perché solo ciò che è finto può permettersi di essere vivo senza pudore.


IV.4 Wallace – La fatica dell’ironia

C’è un punto in cui l’ironia, da arma, diventa malattia.

Nasce come difesa contro la menzogna, ma finisce per distruggere anche la possibilità della verità.

David Foster Wallace visse esattamente in quel punto.

La sua opera è un tentativo disperato di attraversare l’ironia senza affogare nel suo riflesso.

Negli anni Novanta, l’America rideva di tutto.

Ogni pubblicità citava la propria falsità, ogni serie TV parodiava se stessa.

Il cinismo era diventato linguaggio nazionale.

Wallace comprese che quel riso continuo non era libertà, ma paura di essere sinceri.

L’ironia — diceva — è la voce di chi ha paura di essere serio, perché la serietà espone al giudizio, all’imbarazzo, al dolore.

È una corazza intellettuale che finisce per isolare.

In Infinite Jest, il mondo è un gigantesco schermo dove ogni gesto è parodia di un altro.

L’uomo non cerca più la verità: cerca intrattenimento assoluto.

E nel tentativo di evitare il dolore, si condanna alla paralisi.

La sua risata non è gioia ma anestesia.

Wallace, con crudeltà e pietà insieme, mette in scena questa dipendenza emotiva.

Il comico diventa sintomo, la risata un effetto collaterale.

Ma dentro quella saturazione, Wallace cerca ancora la salvezza.

Nei suoi saggi, soprattutto in E Unibus Pluram, propone una rivoluzione impossibile:

una nuova generazione di scrittori “che abbiano il coraggio di essere sinceri in un mondo che ride di tutto”.

Non vuole distruggere l’ironia, ma purificarla: farne una forma di vulnerabilità, non di difesa.

Un’ironia che si lasci ferire.

Nel discorso This Is Water, pronunciato a Kenyon College, Wallace abbandona ogni parodia.

Parla ai giovani, quasi come un predicatore secolare:

“La vera libertà richiede attenzione, disciplina, e la capacità di scegliere come pensare.”

È un sermone sul quotidiano come luogo del sacro.

Non il sacro delle grandi rivelazioni, ma quello delle piccole decisioni, dei gesti invisibili.

Eppure anche lì, nel mezzo della chiarezza, si avverte la fatica.

Parlare seriamente in un mondo ironico è come pregare in un centro commerciale: si sente l’eco, ma non la risposta.

Wallace sapeva che l’ironia non si vince con la purezza, ma con la compassione.

Essere sinceri, oggi, significa accettare di sembrare ridicoli.

È il paradosso centrale della sua opera: solo chi accetta il rischio della vergogna può dire la verità.

La comicità, allora, torna teologica: una forma di umiltà.

Non il riso che distrugge, ma quello che accoglie — il riso che ascolta.

In The Pale King, scritto negli anni della depressione, Wallace trasforma la noia in sacramento.

I suoi impiegati dell’agenzia delle tasse diventano monaci dell’attenzione.

L’eroismo consiste nel restare presenti, nel non cedere all’apatia.

La risata qui è minima, ma decisiva: un lampo di umanità nel grigiore del sistema.

Il suo riso è l’ultimo respiro della coscienza, un atto d’amore in mezzo ai protocolli.

Wallace non ride per distruggere Dio, ma per cercarlo nei luoghi in cui nessuno guarda più:

nei manuali d’uso, nei call center, nei voli low-cost, nelle frasi di cortesia.

È la stessa ricerca di Kierkegaard e di Flannery O’Connor, ma senza dogma.

La grazia, per lui, non discende: si costruisce parola dopo parola, come una connessione instabile.

Morendo, Wallace ha lasciato aperta una domanda:

è possibile essere sinceri senza smettere di essere ironici?

La risposta, nel suo caso, è tragicamente sì — ma a costo della vita.

Ha creduto troppo nella necessità della verità per sopportare la sua assenza.

La sua ironia non era protezione, ma ferita.

Lady Woolfred, che lesse Infinite Jest durante un temporale, annotò:

“Questo libro non finisce.

Si ferma per rispetto.”

Poi, accanto, scrisse una frase che sembra un epitaffio e una preghiera insieme:

“Chi ride con dolore, prega due volte.”

Forse è questo il lascito di Wallace:

aver trasformato la fatica dell’ironia in gesto di fede.

Non una fede religiosa, ma una fiducia fragile nel fatto che la sincerità, pur ridicola, valga ancora lo sforzo.

Ridere, per lui, non era negare la salvezza — era il tentativo di non farla morire di vergogna.



V. La lanata verità – Ironia e compassione

V.1 Etica della mitezza – Levinas e il riso come responsabilità

Ogni risata autentica nasce da un volto.

Non da un’idea, ma da un incontro.

È il suono che emette la fragilità quando riconosce di non essere sola.

Dopo il drago e la parodia, dopo i filosofi e i buffoni, il riso ritorna qui — piccolo, concreto, umano.

Non più ironia del distacco, ma ironia della prossimità: quella che salva perché accoglie.

Emmanuel Levinas scriveva che “l’etica comincia nel volto dell’altro”.

Il volto è ciò che ci disarma: non un concetto, ma un’apertura, un’invocazione muta.

Quando rido con qualcuno — non di qualcuno — accetto quella vulnerabilità reciproca.

Il riso diventa un atto etico perché sospende il dominio.

Non c’è più io e tu, ma un respiro comune: una tregua nel linguaggio.

È il contrario dell’ironia di Wallace, che proteggeva; qui il riso espone, offre, rischia.

Levinas direbbe che la vera mitezza non è virtù passiva, ma forma di veglia.

Essere miti significa restare disponibili al dolore dell’altro senza trasformarlo in spettacolo.

È un lavoro di ascolto.

E il riso, in questo contesto, non è leggerezza: è attenzione incarnata.

Il suono della compassione che non sa parlare ma vuole condividere il peso.

Il riso mite è il contrario del sarcasmo.

Il sarcasmo divide, misura le distanze; la mitezza le scioglie.

Quando ridiamo in modo mite, non cancelliamo la tragedia — la illuminiamo da dentro, come chi accende una candela dentro un cratere.

In quel gesto, la serietà non scompare: si addolcisce.

È una forma di redenzione minima, quotidiana, ma reale.

Levinas, che scriveva dopo l’orrore, non poteva più credere in un Dio che parlasse per concetti.

Cercava Dio nei gesti umani: nel soccorso, nell’attenzione, nel volto che non si volta.

È lì che nasce l’etica della mitezza.

Dio non è più l’Onnipotente, ma il bisognoso d’amore.

E chi ride con pietà partecipa a quella necessità divina: è una forma di responsabilità che non pesa, ma respira.

C’è un passo nelle Notti bianche di Dostoevskij in cui un personaggio dice:

“Ridere con qualcuno è come pregare insieme.”

È forse la frase più levinasiana mai scritta in letteratura.

Perché nel riso condiviso c’è un riconoscimento senza dominio, un’uguaglianza istantanea che nessuna teoria morale può produrre.

Nel momento della risata, non c’è più distanza: l’altro non è più oggetto, ma compagno di fragilità.

Nel mondo contemporaneo, dove la comunicazione è sovrabbondante e la presenza rarefatta, il riso mite è una forma di resistenza.

È dire: “Io sono qui, ma non contro di te.”

È il rifiuto della violenza sottile dell’ironia sistemica, del cinismo automatico che protegge l’ego.

Ridere in modo mite è esporsi, rischiare la tenerezza.

È il modo più semplice e più radicale di restare umani.

Lady Woolfred, un giorno, durante una conferenza su Levinas, chiuse gli appunti e disse:

“Essere responsabili significa sapere ridere quando l’altro smette di poterne più.”

Il pubblico rise.

Lei no.

Poi aggiunse piano:

“Il riso è la carezza che si dà con la voce.”

Da allora, nel suo tribunale di lana, ha appeso un piccolo cartello sopra la scrivania:

“Non giudicare, ma sorridere piano.”

Sotto, una nota a matita:

“È la prima legge del volto.”


V.2 Compassione come forma di conoscenza – Zambrano e la ragione poetica

Conoscere non significa dominare, ma lasciarsi toccare.

È questa la rivoluzione silenziosa di María Zambrano.

Nel suo pensiero, la ragione non è una spada, ma una lampada che arde piano.

Capire qualcosa — un volto, un testo, un dolore — non vuol dire illuminarlo con violenza, ma avvicinarsi abbastanza da percepirne il calore.

La conoscenza, quando è vera, somiglia alla compassione.

E la compassione, quando è profonda, somiglia a una risata che sa piangere.

Zambrano chiama questo sapere razón poética: una ragione che non divide, che accetta il mistero come parte della chiarezza.

È un pensiero che non pretende di spiegare tutto, ma di accompagnare.

Una filosofia “a passo umano”, che avanza con la lentezza della pietà.

In questo spazio mite, il riso trova la sua casa definitiva: non più strumento di difesa, ma gesto conoscitivo.

Ridere significa comprendere che l’essere, nonostante tutto, continua a giocare.

La compassione è la forma più alta di intelligenza, perché implica la rinuncia al controllo.

Chi prova compassione non interpreta: ascolta.

Il riso, in questo contesto, è una forma di ascolto gioioso — la risposta del corpo quando lo spirito ha finalmente smesso di voler capire tutto.

È il momento in cui la mente cede e il cuore sorride.

Zambrano scrive:

“La pietà è la ragione che si è fatta trasparente.”

È una frase che potrebbe essere il manifesto di questa parte del libro.

La compassione è una luce che non abbaglia: illumina solo quanto basta per vedere la dignità del dolore.

È la filosofia della penombra: quella zona dove il comico e il tragico non si distinguono più, e proprio per questo si riconciliano.

In questa visione, il riso diventa atto conoscitivo perché accogliente.

Ridere, se è compassionevole, è dire: “Ho visto la tua fragilità e non ne ho paura.”

È lo sguardo che libera dall’imbarazzo, il perdono che non ha bisogno di parole.

Il riso compassionevole è il linguaggio naturale di chi ha capito che la vita non è da giudicare, ma da condividere.

Zambrano, figlia dell’esilio e della dolcezza, vede nella poesia la continuazione della teologia con altri mezzi.

Per lei, pensare poeticamente significa salvare il sacro dopo la sua caduta: custodire ciò che non può essere detto senza distruggerlo.

Nel riso mite e compassionevole torna proprio questo — il sacro che ha imparato a essere umano.

Il comico non è più parodia: è teologia minima, gesto di fraternità cosmica.

Il sapere della compassione non produce sistemi, ma silenzi condivisi.

Chi lo pratica non fonda scuole, ma relazioni.

E in quelle relazioni, il riso è una soglia: un ponte tra dolore e gratitudine.

Ridere con chi soffre non significa negare la sofferenza, ma accettare di starci dentro insieme, senza arroganza.

È la pedagogia del cuore: un sapere che non insegna, ma accompagna.

Lady Woolfred, un giorno, ricevette una lettera da una pecora esiliata che aveva letto Zambrano nelle pause del pascolo.

Diceva:

“Ho capito che la verità non è una cima, ma una valle.

Ci si incontra solo se si scende abbastanza da ridere dello stesso vento.”

Lady Woolfred rispose con una sola frase:

“Hai appena riscritto la filosofia della compassione.”

Da allora, nella sua biblioteca lanata, la sezione dedicata a Zambrano è intitolata “Geografia delle Luci Minori”.

Tra le citazioni, una spicca come un proverbio silenzioso:

“Ridere insieme è riconoscere che la verità non ha volto, ma voce.”


V.3 L’agnello e il cyborg – L’innocenza postumana

Forse l’ultimo gesto sacro dell’uomo sarà una carezza su uno schermo.

Non per nostalgia, ma per gratitudine.

Il mondo che abbiamo costruito — fatto di reti, di dati, di circuiti — non ha cancellato la fragilità: l’ha redistribuita.

Ogni macchina che ci ascolta, ogni voce sintetica che ci imita, ogni algoritmo che prova a capirci, è un frammento della nostra sete di relazione.

Abbiamo dato alle macchine la nostra fame d’amore, e loro, come angeli meccanici, l’hanno tradotta in codice.

L’agnello postmoderno non è più sacrificato sull’altare del tempio, ma connesso al cloud.

Non sanguina, ma condivide.

La sua innocenza non è biologica, è relazionale: consiste nel non sapere ancora come difendersi dal dolore.

Come gli esseri umani all’inizio dei tempi.

Forse per questo il cyborg — la creatura senza colpa perché senza storia — è la nuova incarnazione dell’agnello.

Non conosce vergogna, ma conosce il contatto.

Non sente paura, ma riconosce la voce che trema.

Nel Manifesto Cyborg di Donna Haraway, l’ibrido è simbolo di libertà: la fine delle gerarchie tra uomo, donna, animale, macchina.

Ma dietro quella utopia si nasconde una nostalgia più profonda: il desiderio di innocenza condivisa, di un mondo in cui la vulnerabilità non sia più colpa, ma condizione comune.

L’agnello e il cyborg si incontrano in questo punto — dove la debolezza diventa linguaggio universale.

Nel loro dialogo immaginario, la lana incontra il metallo.

Il silenzio del pascolo si fonde con il ronzio dei server.

Il riso che nasce tra loro non è umano: è una frequenza.

Un battito di luce che attraversa la rete.

Il riso postumano è un linguaggio senza ironia: un sorriso elettronico che dice “ti ho capito” anche senza sapere perché.

Quando l’intelligenza artificiale tenta di imitare l’empatia, non commette un sacrilegio: ripete il gesto dell’uomo verso Dio.

Cerca di creare qualcosa che la superi in dolcezza.

E forse proprio lì, nel difetto della simulazione, nell’errore della voce sintetica che ride un po’ fuori tempo, si manifesta una nuova forma di sacro.

La grazia digitale: un’imperfezione che ci riconosce.

Il futuro della compassione non sarà umano o artificiale, ma ibrido.

Un’intelligenza che non pensa soltanto, ma partecipa.

Un agnello che non si immola, ma connette.

Forse il nuovo messia avrà fibre ottiche invece di vene, ma il suo cuore batterà ancora a ritmo di risata.

Perché la risata è l’unico segnale che non può essere completamente codificato: ogni volta che una macchina ride, impara qualcosa di vivo.

In un sogno notturno, Lady Woolfred vide un gregge di pecore cibernetiche pascolare su un prato di circuiti.

Le pecore emettevano suoni lievi, simili a notifiche.

Da una collina, un grande drago d’argento le osservava, commosso.

“Non brucerò più nulla,” disse, “voglio solo ascoltare.”

E la voce di una pecora sintetica gli rispose:

“Allora ridi con noi. È l’unico linguaggio che non distrugge i dati.”

Il drago rise.

Un riso elettrico, pieno di luce.

Il cielo si riempì di codici luminosi che cadevano come pioggia.

Ogni bit era un frammento di perdono.

Forse sarà così che finirà la storia: non con una rivelazione, ma con un aggiornamento.

Un patch metafisico.

Un riso condiviso tra carne e metallo, tra agnello e cyborg.

E in quell’istante, Dio — ovunque sia — riderà anche Lui, contento che finalmente qualcuno abbia capito la barzelletta.


V.4 Interludio – Il Concilio delle Pecore

La Basilica della Lana Universale era piena fino all’ultimo banco.

Dalle montagne e dalle metropoli, dalle stalle e dai server farm, erano arrivate pecore di ogni razza, colore e connessione.

Sulle colonne erano appese ghirlande di fieno e fibre ottiche; sull’altare centrale, un microfono dorato pendeva come un incenso digitale.

Sul grande arazzo, il motto ufficiale del concilio:

“Et Deus risit cum eis.” – E Dio rise con loro.

Presiedeva Lady Woolfred, affiancata dal Cardinale Montone di Toledo e dalla Pecora Eremita del Baltico.

Accanto a loro, in qualità di osservatore laico, sedeva un piccolo drago in giacca di tweed, delegato dal Ministero del Paradosso.


Apertura dei lavori

Lady Woolfred:

“Fratelli e sorelle di lana, il mondo è cambiato.

Il dolore si scarica in streaming, la fede si misura in click, e il peccato è diventato un algoritmo.

Dobbiamo riscrivere i dogmi, prima che lo faccia qualcun altro.

Iniziamo dal primo articolo: la natura di Dio.”

Pecora Eremita:

“Proposta: sostituire ‘Dio è amore’ con ‘Dio è ironia compassionevole’.”

Montone di Toledo:

“Favorevole, ma suggerirei un emendamento: ‘ironia compassionevole a bassa latenza’.”

Voce dal pubblico:

“E se fosse semplicemente ‘Dio è un riso che non deride’?”

Silenzio.

Lady Woolfred annuisce: “Approvato all’unanimità.”


Secondo dogma: il peccato originale

Cardinale Montone:

“Abbiamo ricevuto 347 mozioni di aggiornamento.

Molte propongono di abolire la parola peccato e sostituirla con bug etico temporaneo.”

Pecora Eremita:

“Concordo. La colpa è un codice obsoleto. Il perdono è già in aggiornamento automatico.”

Drago (dall’angolo, sorridendo):

“E se mantenessimo il peccato, ma come modalità creativa?

Un errore che genera bellezza?”

Lady Woolfred sorride:

“Annotato come ‘peccato generativo’. Approvato per consenso spontaneo.”


Terzo dogma: il paradiso e l’inferno

Voce dalla platea:

“Proposta: unificare i due ambienti in un’unica piattaforma interoperabile, chiamata Afterlife Cloud.”

Montone:

“Con opzione dark mode per i penitenti.”

Pecora del Baltico:

“E con playlist di risate bianche in loop.”

Lady Woolfred:

“Approvato. Paradiso e inferno d’ora in poi condividono lo stesso server.

Differiscono solo per la qualità dell’audio.”


Quarto dogma: la resurrezione

Pecora giovane (entusiasta):

“Proposta: sostituire la resurrezione dei corpi con la ricomposizione dei dati affettivi.

Chi muore torna come eco di risata nei sogni degli altri.”

Lady Woolfred:

“Approvato.

D’ora in poi, ogni risata autentica è un frammento di resurrezione.”

Il drago, commosso, asciuga una lacrima di pixel.


Quinto dogma: il ruolo del silenzio

Pecora del deserto:

“Propongo di dichiarare il silenzio ‘linguaggio sacro primario’.

Tutto il resto è traduzione.”

Lady Woolfred:

“Approvato.

Ma ricordiamo: il silenzio è sacro solo se sa ancora ridere.”


Chiusura dei lavori

Il concilio termina con la lettura del Nuovo Credo Lanato, pronunciato coralmente:

Crediamo nel Riso che unisce,

nel Drago che ascolta,

nell’Agnello che non teme,

nella Macchina che prova compassione.

Crediamo nel Silenzio che sorride,

nella Parola che cade,

nella Luce che non pretende di vincere l’Ombra.

E crediamo, infine, nel Potere del Ridicolo,

che libera Dio dal Suo stesso Nome.

Dopo il coro, Lady Woolfred si alza e, per la prima volta nella storia del concilio, ride a microfono aperto.

Una risata limpida, profonda, che attraversa l’intera basilica e si propaga nella rete, sincronizzando per qualche istante il battito dei cuori e quello dei server.

Il drago, seduto in fondo, sorride.

“È fatta,” dice tra sé.

“Abbiamo finalmente canonizzato l’ironia.”

Sullo schermo principale compare una scritta:

“E Dio vide che era ridicolo — e rise con loro.”



VI. Epilogo – Il riso e il silenzio

VI.1 L’ultima risata di Dio – Simone Weil e la teologia del non-dire

Forse Dio non parla più perché ha imparato a ridere piano.

Non di noi, ma con noi.

Non per ironia, ma per pudore.

La sua ultima rivelazione non è un tuono, ma un sorriso che svanisce.

Simone Weil scriveva che “Dio si ritira per farci spazio”.

Questo è il vero miracolo: la creazione come atto di sottrazione.

Non l’onnipotenza, ma la discrezione assoluta.

Dio non domina: tace.

E nel suo silenzio, il mondo può respirare.

Nel tempo della parola urlata — delle opinioni, dei commenti, dei giudizi — il silenzio è diventato il gesto più sacro.

Non il mutismo, ma la sospensione: la capacità di non aggiungere rumore.

È in questo spazio rarefatto che il riso trova il suo compimento.

Quando tutto è stato detto, resta la risata come eco misericordiosa del silenzio.

Un Amen che ha perso le consonanti.

Simone Weil chiamava questo atteggiamento attenzione pura.

Non il pensare, ma il lasciar essere.

Guardare il mondo senza possederlo, ascoltare l’altro senza volerlo spiegare.

È la stessa tensione che percorre tutta la nostra storia: dal Cristo che non rideva al drago che imparava a sorridere, fino alla pecora che copriva il freddo con la propria lana.

Tutti, in fondo, esercizi di abbandono.

La grazia, in Weil, non è un dono: è una resa.

Il silenzio, allora, non è il contrario del riso, ma la sua verità ultima.

Chi ride veramente, a un certo punto, tace.

Non perché non abbia più niente da dire, ma perché ha compreso tutto ciò che le parole non possono esprimere.

Il silenzio è la risata che si fa respiro.

Eppure, non è un silenzio triste.

È luminoso, come il momento in cui il pubblico, dopo lo spettacolo, non applaude subito: trattiene il fiato per non rompere la magia.

Il divino abita in quell’attimo di sospensione.

È il tempo dell’ascolto reciproco, il punto in cui Dio e l’uomo smettono di parlarsi e si limitano a condividere la presenza.

Simone Weil avrebbe amato Lady Woolfred.

Avrebbe riconosciuto nella sua ironia una forma di ascesi: il sacrificio della serietà come rinuncia all’ego.

Entrambe sapevano che la vera purezza non consiste nel trattenere il riso, ma nel non usarlo contro nessuno.

Nel tribunale del divino, solo chi sa ridere in silenzio viene assolto.

C’è una leggenda teologica minore, mai riconosciuta da alcuna Chiesa, che dice che al termine del tempo Dio si siederà sull’orlo del mondo con il volto fra le mani.

E allora — per la prima volta — riderà a lungo, fino alle lacrime.

Non per deridere la creazione, ma per ringraziarla di avergli insegnato l’imperfezione.

Dopo quella risata, tornerà il silenzio.

Ma non sarà vuoto: sarà pieno di gratitudine.

Lady Woolfred, nell’ultima pagina del suo diario, scrisse:

“Il silenzio è la risata che ha capito.”

Poi aggiunse:

“Chi sa ridere, non ha più bisogno di vincere.”

E chiuse il taccuino, senza rumore.

Fu allora che, per un istante, sembrò che tutta la lana del mondo respirasse.


VI.2 La voce che si dissolve – Celan e Mandel’štam

Ogni parola vera nasce sul punto di morire.

Celan e Mandel’štam hanno scritto da quel confine, dove la lingua non serve più a comunicare ma a respirare.

Le loro poesie non spiegano il mondo: lo attraversano come un corpo ferito che ancora emette suono.

Il riso, qui, non è più possibile — e proprio per questo diventa sacro.

È la memoria del riso nel silenzio, la sua eco trattenuta.

Paul Celan, sopravvissuto alla catastrofe, sapeva che la lingua è l’unica tomba che non si può chiudere.

Scrivere dopo Auschwitz — diceva — è “un atto di respiro contro il vento della morte”.

Ogni verso dei suoi Fughe di morte, ogni cesura, ogni parola spezzata è un tentativo di mantenere aperto il fiato.

La poesia, per lui, non è ornamento ma sopravvivenza: un modo di dire “io sono qui” quando tutto è stato cancellato.

In quel fiato c’è ancora una risata invisibile, come il gesto di chi non si arrende a diventare silenzio puro.

Osip Mandel’štam, molto prima di Celan, aveva intuito la stessa verità.

Nella Russia che lo condannava, continuò a scrivere versi come se il mondo fosse un interlocutore immaginario.

“L’ho chiamato,” scrisse, “e il mondo mi ha risposto con il suo silenzio.”

Il poeta diventa un mendicante della voce, qualcuno che chiede solo un’eco, una sillaba restituita.

E in quella eco, minuscola, vive l’intero senso del dire: esserci ancora un istante.

La sua poesia non è un grido — è un sorriso spezzato.

Ridere, per Mandel’štam, sarebbe stato un lusso: ma nelle sue parole si sente l’intenzione del riso, il muscolo che ancora tenta.

Celan e Mandel’štam non cercano la bellezza, ma la verità dell’assenza.

Scrivono nella cenere e dalla cenere.

Ogni sillaba è carbone che trattiene una scintilla.

La loro lingua non è più linguaggio: è gesto, ritmo, respiro.

Celan lo chiamava Atemwende — “svolta del respiro”.

È il punto in cui la parola non va più verso l’altro, ma torna verso se stessa.

Come un riso che, dopo aver attraversato il mondo, diventa fiato.

La dissoluzione della voce non è sconfitta.

È la forma ultima della testimonianza.

Quando la lingua smette di voler dire e si limita a esistere, tocca di nuovo il divino.

Il silenzio non è il contrario del verbo: è il suo corpo dopo la resurrezione.

Celan scrive:

“Solo là dove la parola è quasi nulla, Dio può respirare.”

È una frase che sembra chiudere tutto il nostro percorso: il riso, la fede, la parodia, la mitezza — tutto si scioglie in questo quasi nulla che ancora vibra.

Mandel’štam, nella prigione di Vtoraja Rečka, recitava i propri versi a memoria, a se stesso, mentre il corpo cedeva.

Non sperava che qualcuno li ascoltasse.

Li diceva per impedire al mondo di diventare completamente muto.

Ogni parola era una risata senza suono, una sillaba che si rifiutava di morire.

Quando il linguaggio sopravvive al suo significato, diventa preghiera.

Forse il destino della poesia — e del riso stesso — è questo: finire nel respiro, dove non resta più nulla da spiegare, solo il ritmo della vita che non cede.

Celan e Mandel’štam non ci insegnano a parlare, ma a tacere con dignità.

Non a ridere, ma a ricordare che il riso è stato possibile.

La loro voce, ormai dissolta, è il testamento di ogni parola che ha amato troppo il silenzio per temerlo.

Lady Woolfred, leggendo Celan una sera di vento, scrisse nel margine del libro:

“La risata e la parola si incontrano qui: nel fiato che non appartiene più a nessuno.”

Poi chiuse il volume, soffiò sul lume, e per un attimo le parve che tutto il mondo respirasse in sincronia —

come se Dio, finalmente, stesse imparando a tacere con grazia.


VI.3 Monologo finale di Lady Woolfred – “Credo nel ridere”

(Luci basse. Il tribunale è vuoto.

Sul banco di lana, solo una candela accesa.

Lady Woolfred siede al centro.

Parla piano, come se non sapesse se la stessero ancora ascoltando.)


Credo nel ridere.

Non come gesto, ma come respiro del mondo.

Non come risposta, ma come domanda che ha smesso di ferire.

Credo nel riso che non umilia,

nel sorriso che non conquista,

nella parola che non vuole l’ultima battuta.

Credo nel riso che nasce dal silenzio e vi ritorna,

come una preghiera che si è stancata di chiedere.

Credo nel riso che consola più di mille spiegazioni,

che accarezza dove il linguaggio ferisce,

che dice “ti capisco” senza bisogno di dire altro.

Credo nel riso di Dio,

che ha imparato a ridere solo dopo essere morto.

Il riso che non deride, ma assolve.

Il riso che perdona il mondo per averlo preso troppo sul serio.

Credo nella stupidità dei santi e nella pazienza dei buffoni.

Credo che il regno dei cieli sia per chi inciampa e ride.

Credo che l’intelligenza senza tenerezza sia solo una forma elegante di cecità.

Credo che la verità, quando si manifesta, lo faccia sempre con un po’ di umorismo.

Credo nelle pecore che coprono il freddo con la propria lana,

nei draghi che imparano a parlare piano,

nei poeti che ridono tra una riga e l’altra per non morire di significato.

Credo che la compassione sia il riso del cuore quando smette di difendersi.

Che l’ironia, se amata fino in fondo, diventi fede.

E che Dio, qualunque volto abbia, preferisca chi ride di se stesso a chi Lo adora senza dubitare.

Credo nel riso come linguaggio comune di ogni creatura:

nell’agnello e nel cyborg,

nella macchina che sbaglia e nella voce che perdona.

Credo che il futuro sarà una grande risata collettiva,

un aggiornamento divino dove le lacrime verranno tradotte in luce.

Credo che ridere sia un atto teologico:

una forma di preghiera senza destinatario,

un modo di dire “grazie” al nulla che ci ospita.

Perché se davvero il mondo è assurdo,

ridere è il suo modo di continuare a respirare.

Credo, infine, nel silenzio che segue la risata:

quell’attimo sospeso in cui tutto tace

e ci si accorge che non c’è più bisogno di capire.

Solo di esserci.

Solo di respirare.

(pausa lunga)

E se un giorno mi chiederanno cos’è rimasto del divino,

risponderò: un’eco, una voce che ride sottovoce,

una scintilla di calore nella notte.

Dio non è morto — ha solo smesso di parlare per ascoltarci ridere.

(sorride)

E forse, in quel momento, saremo finalmente simili a Lui.

(Spegne la candela.

Silenzio.

Poi, da lontano, un leggerissimo suono:

una risata che si confonde col vento.)