12 agosto – Fine della corsa
La sveglia suona alle cinque e mezza. Non suona: urla. È l’allarme dell’iPhone che sembra programmato da un torturatore medievale.
Sara mugugna, Maddalena fa finta di essere in coma, io per un attimo penso di aver sognato tutto e di essere ancora nel letto del Palé (orrore supremo!). No, è davvero il giorno della partenza.
Colazione lampo in hotel: due caffè che sanno più di filtro dell’olio che di arabica, un succo annacquato. Tempo zero: carichiamo i bagagli come contrabbandieri notturni e via, direzione Manchester Airport.
Missione Avis: resa senza condizioni
La macchina, poveretta, dopo giorni di mulattiere gallesi e curve impossibili, sembra guardarci con aria supplichevole:
“Davvero mi lasciate qui? Dopo tutto quello che abbiamo passato insieme?”
Abbasso lo sguardo. È come restituire un cane randagio adottato per dieci giorni.
Ma la resa è rapida, quasi sospetta. Niente graffi “inventati”, niente discussioni sui chilometri, niente impiegato con occhio da falco. “All good, sir!” e la pratica è chiusa. A momenti ci abbracciano pure.
Un bus-navetta è già lì ad aspettarci. Insomma, una di quelle mattine dove tutto fila liscio. E già questo mette ansia: quando va tutto bene, sai che il colpo di scena è dietro l’angolo.
La lounge della discordia
Tempo di ammazzare un po’ di attesa: ci infiliamo in una lounge minimal, di quelle che ti offrono caffè, succo e qualche snack che pare uscito da un catalogo Ikea del 2004.
Io mi limito al caffè, Sara al succo, Maddalena invece, fiduciosa come sempre, afferra una brioche salata al formaggio.
“Ma dai, sembra buona!” dice sorridendo.
Spoiler: non lo era. Due ore più tardi, a diecimila metri d’altezza, quella brioche si trasforma in una creatura ostile, un alieno che decide di ballare il tip-tap nello stomaco.
Imbarco e volo
Il gate si apre senza drammi: niente ritardi, niente allarmi. Saliamo a bordo, ci sediamo, ci guardiamo. Tutti un po’ zombi, ma tranquilli.
Due ore dopo: atterriamo a Verona. Non un colpo di vento, non una turbolenza, non un passeggero che applaude. Un volo quasi inquietante per quanto è stato normale.
Fame da lupi (con deviazione greca)
Una volta fuori, chiamiamo il taxi. Non vogliamo andare direttamente a casa, la nostalgia di ferie ci morde. Decidiamo di scendere a San Zeno.
Obiettivo: Avra, il ristorante greco che per noi è come un porto sicuro.
Ci accoglie profumo di pita, tzatziki e souvlaki. Finalmente piatti leggeri, semplici, un pranzo che ci coccola come una nonna ellenica. Nessun piatto sperimentale con nomi assurdi, nessun cameriere logorroico da Madeira che ti spiega perché il pesce fresco è surgelato. Solo Grecia, sorrisi e stomaci felici (a parte quello di Maddalena, ancora in fase di trattativa con la brioche ribelle).
Epilogo: le valigie, la realtà
Altro taxi, finalmente a casa. L’aria di Verona ci sembra irreale dopo giorni di vento gallese e pioggia laterale.
Le valigie ci guardano mute, come bestie addormentate ma pronte a vendicarsi. Toccherà svuotarle. Dentro, sabbia gallese, qualche sasso “ricordo” che pesa come l’uranio, e probabilmente calzini bagnati dimenticati.
E così cala il sipario. Un viaggio epico, fatto di pecore sindacaliste, stradine assassine, hotel gotici e brioche traditrici.
Noi tre siamo tornati, un po’ più stanchi ma con il cuore più leggero.
E già penso: quando si riparte?
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