Aber Falls, tramezzini da leggenda e il lato oscuro di Cwm Idwal
Oggi lusso sfrenato: colazione alle 9:00. Maddalena ci ha guardati come se avessimo appena annunciato di voler passare l’inverno ai Caraibi. “Ah, oggi vacanza vera, eh?” dice, mentre Sara si gode il suo caffè con un sorrisetto zen. Io, ovviamente, inizio la giornata con una scelta alimentare discutibile: uova con salsa olandese, burro, marmellata e un pizzico di follia. Dentro di me una vocina saggia mi sussurra che quelle uova le avrei ricordate più avanti, in cima a qualche sentiero. Ma la vocina viene ignorata, come sempre.
Partiamo per le Aber Falls, e via di nuovo su quella strada stretta che ormai è diventata il nostro tapis roulant personale. Talmente stretta che il navigatore, a un certo punto, ha detto: “Io qui non c’entro, arrangiatevi”.
Sosta sacra al Tesco, dove facciamo scorte d’acqua e soprattutto ci appropriamo di tramezzini talmente sontuosi che Lucullo avrebbe chiesto il bis. Vi dico solo che c’era così tanta maionese che, tecnicamente, erano dei tramezzini in stile nuoto sincronizzato.
Al parcheggio ci assiste la Dea Gallese del Posteggio Impossibile: ultimo posto libero, conquistato con la stessa emozione di un goal al 90esimo. Maddalena ha esultato facendo il gesto dell’arco, mentre una pecora, seduta sul ciglio della strada, ci guardava con aria da “pfff… dilettanti”.
Su gli zaini, su gli scarponi, e partiamo. Le Aber Falls ci accolgono con il loro spettacolo, ma il percorso è reso più “vivace” da un gruppo di brasiliani in pieno Carnevale di Rio. Samba, tamburi, cori da stadio. La cascata stessa sembrava quasi chiedere pietà: “Ragazzi, mi occupo io del sottofondo acustico, grazie”.
Dopo la foto di rito (Maddalena in versione “influencer selvaggia”), arriva la scelta da duri: facciamo il giro lungo, quello per cui le suole degli scarponi firmano preventivamente le dimissioni.






Superata la missione Aber Falls, risaliamo in auto per raggiungere Cwm Idwal (no, non è un errore di battitura, e no, non avete problemi alla vista). Un lago incastonato tra montagne che custodisce una leggenda antichissima: pare che il giovane Idwal fu gettato nelle acque dai nemici del padre, e da allora nessun uccello osa volare sopra il lago. Gli unici che osano sono gli escursionisti ignari e le pecore locali, che ormai ci fanno corsi di alpinismo.
Arrivati al parcheggio, ecco il dramma quotidiano gallese: parcheggio pieno. Ma non “pieno” nel senso di “quasi finito”, no no, pieno come il baule di un inglese in campeggio. Macchine ferme, gente che gira in tondo come squali affamati, e noi, ovviamente, nel mezzo. Dopo cinque minuti di attesa zen, una macchina si prepara ad uscire: il nostro cuore esulta. Siamo già lì, freccia messa, pronti ad entrare.
E poi… il colpo basso.
Una signora sbuca da dietro, si infila nel posto senza neanche un cenno di scuse, come se fosse la cosa più naturale del mondo. Neanche un “sorry”, niente. Un’entrata in scena talmente sfrontata che sembrava orchestrata da Monty Python in persona. Maddalena, sconvolta, sussurra: “Ma… ma questa si è inserita come su Mario Kart!”. Sara rimane basita, io cerco di ricordare il mantra della calma, ma dentro sto già progettando vendette in stile James Bond gallese.
Eppure, il karma non si lascia attendere: pochi minuti dopo, un signore torna dal suo trekking, ci vede, e con un sorriso ci fa cenno che sta liberando il posto. Ma non solo: si avvicina, ci porge il biglietto del parcheggio già pagato e ci dice: “Enjoy the hike, you’ll love it”. E lì, improvvisamente, il mondo torna ad essere un posto meraviglioso. Sara lo benedice in tutte le lingue, Maddalena esclama: “Top guy!”, mentre io penso che quest’uomo andrebbe messo sulle banconote gallesi.
Parcheggio trovato, animo risollevato, ci prepariamo per la seconda sfida della giornata
Ma prima di inerpicarci in modalità “capre tibetane in trasferta”, decidiamo di fare un pit stop gastronomico: apriamo i tramezzini del Tesco. E lì la situazione degenera in puro humor nero british style.
Seduti su una pietra, con un panorama mozzafiato e circondati da pecore filosofeggianti, iniziamo a discutere del fatto che questi tramezzini – talmente imbevuti di maionese da sembrare dei disastri naturali certificati UNESCO – potrebbero essere l’arma segreta della Brexit. Maddalena, serissima, osserva: “Papà, se questa maionese cola ancora un po’, finirà direttamente nel Canale della Manica e taglieremo i rapporti con la Francia per davvero”. Sara ride, mentre io, con la bocca piena, cerco di spiegare che probabilmente la leggenda di Idwal è nata perché qualcuno gli ha lanciato addosso un tramezzino al tonno.
A questo punto, con le calorie di un piccolo mammifero artico, decidiamo di salire per il sentiero dei masochisti, quello che in 200 metri di dislivello ti fa rivalutare tutte le scelte di vita, comprese le uova della colazione. Sara, con lo sguardo calmo di chi sa che ormai non si può più tornare indietro, si arrampica come una pecora ninja, Maddalena ci guarda scuotendo la testa: “Voi siete pazzi”.
Ogni passo è un trattato di filosofia esistenziale. Maddalena, in perfetta lucidità british, si ferma, ci guarda dall’alto della sua saggezza e pronuncia quella che diventerà una citazione da incidere sui muri di Snowdonia:
“The survivor instinct of a tissue.”
Silenzio.
Ci fermiamo, ci guardiamo, guardiamo Maddalena. Lei, serissima, continua a salire come se niente fosse. La frase rimbalza nell’aria come un koan zen, mentre una pecora vicina smette di brucare e si volta verso di noi, palesemente colpita dal livello di nonsense.
A quel punto capiamo che la fatica sta iniziando a giocare brutti scherzi. Ma decidiamo di prenderla come il primo comandamento dell’escursionista gallese. Sara, trattenendo le risate, sussurra: “Edo, credo che Maddalena abbia appena creato una filosofia di vita”. E io, con aria da profeta dei sentieri, aggiungo: “D’ora in poi, su ogni salita, ci ripeteremo: the survivor instinct of a tissue”.
Immagino già la scena: t-shirt nei negozi di souvenir con la scritta a caratteri cubitali, sotto la foto di una pecora con l’aria da monaco tibetano.
Maddalena, ignara di aver appena scolpito una perla nella storia dell’escursionismo gallese, continua a salire come se stesse andando a prendere il pane. Noi la seguiamo, ridendo e ansimando. Ethel, la pecora filosofeggiante, approva silenziosa dal suo angolo, sicura che domani tutta la valle ripeterà il mantra.
Ma la vista dalla cima ripaga tutto: uno squarcio sul lago che sembra aprirsi su un’altra dimensione. È il classico panorama che ti fa pensare “ok, ne valeva la pena”, mentre il tuo ginocchio sinistro ti sussurra “mai più”.






La discesa sui gradoni di pietra è più una sfida di equilibrio che un’escursione, ma arriviamo giù interi (più o meno). Si chiude il cerchio del lago, e il sentiero ci riporta alla macchina, stanchi e felici, come dopo un pranzo di Natale, ma con meno lasagne.






Rientriamo in albergo con il passo glorioso di chi ha vinto la sua personale tappa del Tour de France, ma con la grazia di tre cammelli assetati. L’appuntamento è fisso: birretta defaticante sul terrazzo del bar dell’hotel. Niente pub, niente confusione, solo noi, le nostre birre e una vista che, se ascolti bene, ti sussurra: “Bravi, siete ancora vivi”.
Ci sediamo su quelle sedie da esterno che hanno visto più escursionisti sfiniti di quante pecore ci siano in Galles. Sara si stende con la sua pinta come fosse appena arrivata alla spa, Maddalena si sistema accanto a lei con la bottiglietta di limonata (ma fa finta sia gin tonic per sentirsi più adulta), mentre io, ovviamente, sollevo il bicchiere e annuncio a gran voce: “Alla salute delle nostre ginocchia!”.
La scena, vista da fuori, sembrerebbe un tranquillo quadretto familiare. Ma dentro di noi, ognuno stava facendo un check-up mentale: “Respiro ancora? I piedi li sento? Le suole degli scarponi? Perse in guerra”.
Maddalena rompe il silenzio con una domanda spiazzante: “Papà, ma non era meglio fare la vacanza in crociera?”. Risposta mia: “E dove lo trovi il fascino di bere birra calda su una sedia in plastica guardando pecore che ti giudicano?”. Sara ride, Maddalena pure, e la pecora di turno – chiamiamola Ethel, oggi si chiama così – ci fissa dal prato con l’aria di chi pensa: “Voi umani non reggete un metro di salita…”.
Poi arriva il momento clou: la cena in albergo, di nuovo. Non per pigrizia, eh! Ormai tra noi e la sala da pranzo si è creata una certa intimità emotiva. È come tornare a casa della zia che cucina benissimo: magari pensavi di cambiare, ma alla fine il richiamo dell’arrosto è più forte di te.
Entriamo nella sala come tre vecchi amici che tornano al bar sotto casa. Il tuttofare ci vede e neanche chiede il nome della prenotazione: ci fa un cenno con la testa che vale più di mille parole. È quel cenno che dice: “Bentornati, eravate previsti”.
Facciamo finta di leggere il menù, tanto per salvare le apparenze. Maddalena è la più onesta: “Prendiamo quello che abbiamo preso l’altra volta, vero?”. E sì, ovviamente sì. Perché cambiare quando il destino ti ha già servito il piatto perfetto? In fondo, le vacanze sono anche questo: scoprire posti nuovi e, quando trovi qualcosa che funziona, spremerla fino all’ultima briciola di pane.
La serata finisce con noi che pianifichiamo il giorno dopo. Si prova a proporre di “fare qualcosa di più rilassante”. Maddalena guarda e, con la saggezza di una veterana di sentieri, risponde: “siamo con Sara. Lo sai che per lei ‘rilassante’ vuol dire che oggi si cammina solo per 15 km”. Sara sorride, alza il bicchiere e, con tono solenne, dice: “Domani sarà una giornata leggera. Leggera come i tramezzini del Tesco”.
E così si conclude questa giornata: con una birra in mano, le scarpe già pronte sull’uscio e una pecora (Ethel, sempre lei) che ci osserva dalla finestra con un sorriso sornione. Domani si riparte. Domani si ride. Ma con più cerotti.
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