Dalla grandeur bruciata alla farsa stellata
Mattina: la partenza del sognatore ingenuo
Oggi ci svegliamo presto, pieni di entusiasmo.
Non per l’ennesimo giro tra rovine e castelli, ma perché stasera… cena di gala al Pale Hotel.
Un nome così ti fa subito pensare a velluti, camerieri in guanti bianchi, champagne a fontana e un’orchestra di quartetto d’archi che suona God Save the Queen.
Sara e Maddalena sono già in fibrillazione: Sara ha messo in ordine la valigia come un chirurgo estetico, Maddalena si è provata tre volte il vestito rosso per essere sicura che “luccichi abbastanza”.
Io invece sono già contento perché ho trovato la mia camicia bianca senza macchie di sugo. A volte, la vita è fatta di piccole vittorie.
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Ultima fermata inglese: Witley Court, l’aristocrazia bruciata
Prima di varcare di nuovo il confine gallese, ci fermiamo a Witley Court, una residenza talmente grande che, se non avessero inventato i monopattini elettrici, i domestici ci mettevano due giorni per portarti il tè.
Fondata nel XVI secolo, cresciuta e decorata fino a diventare un capolavoro di opulenza… e poi, nel 1937, bruciata come un’arrosto dimenticato nel forno.





Ora resta in piedi solo lo scheletro, ma che scheletro! Le mura sono alte e imponenti, le finestre senza vetri ti guardano come occhi vuoti di un vecchio aristocratico che ti chiede “E tu chi sei, plebeo?”.
La fontana centrale è il pezzo forte: ogni ora, per 15 minuti, si anima di giochi d’acqua. Sembra che l’intero giardino applauda, mentre io penso che in mezzo all’Ottocento sarei stato lì in giacca di velluto, con una pecora maggiordomo di nome Nigel, che avrebbe detto cose tipo: “Il tè è pronto, sir, ma si ricordi che Lady Kensington oggi ha fatto uno scandalo indossando un cappello di due centimetri più largo del regolamento”.

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Ludlow: caffè miracoloso, castello senza funghetti e la chiesa bar
Ci spostiamo verso Ludlow, un villaggio che pare costruito per essere fotografato e messo in copertina di un libro di poesie romantiche.
Prima tappa: un bar.
Motivo ufficiale: “Ci serve un espresso”.
Motivo vero: “Devo andare in bagno”.
E qui il miracolo: l’espresso è buono. Non buono “per essere in Inghilterra”. Buono e basta. Maddalena mi guarda con gli occhi lucidi e dice: “Papà… non sa di brodo!”.
Poi andiamo al Ludlow Castle: enorme, suggestivo, con torri e corridoi che ti fanno venire voglia di parlare in rima come Lancillotto. Unico neo: nello shop non vendono peluche a forma di funghetto rosso. Maddalena decreta ufficialmente che “questo castello non crede nella magia” e io annuisco, perché certe ferite sono troppo profonde.









Passeggiando, troviamo la St Laurence’s Church. Una chiesa vera, con altare, candele, panche… e un bar interno con divanetti e macchina per il caffè. Ho visto una signora ordinare un cappuccino, sedersi, berlo, e poi inginocchiarsi per pregare. In Italia ti arresterebbero, qui ti fanno anche lo sconto se prendi due cappuccini.




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Pranzo slow food (ma non così slow)
Pranziamo al Rose & Crown, un pub di 600 anni con travi che sembrano reggersi solo grazie alla fede. Atmosfera calda, toast eccellenti, e un cameriere che sembrava uscito da un libro di storia, con giacca tweed e accento da romanzo di Agatha Christie.
Scopro che Ludlow è “città slow food”. Significa che ti servono con calma. Ma a me basta che non sia “città fast food”, ecco.
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Arrivo al Pale Hotel: il lusso finto come una banconota di cioccolato
Dopo curve e stradine così strette che, se incontravi un’altra macchina, dovevi scegliere chi dei due abbandonava il mezzo e si dava alla vita monastica, eccolo: il Pale Hotel.
Il primo impatto è da wow cinematografico.
Un portiere in livrea rossa ci accoglie come se stessimo entrando a corte. Il servizio valet scatta immediatamente: consegni la chiave e la macchina scompare come teletrasportata in un garage segreto sorvegliato da monaci tibetani.
Bagagli scaricati con gesti teatrali, come se le nostre valigie contenessero corone reali e non, più realisticamente, mutande arrotolate e bottiglie d’acqua.
Attraversiamo saloni con poltrone Chesterfield, una biblioteca che odora di libri letti solo per finta e un pianoforte a coda che aspetta, da decenni, che qualcuno sappia suonarlo senza fare “Per Elisa” a caso.
Ti senti un nobile appena sceso dalla carrozza… finché non apri la porta della camera.
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Il Museo del Mediocre
La stanza è un capolavoro di… niente.
Triste, anonima, arredata come il retrobottega di un centro estetico degli anni ’80, con pareti color “beige rassegnazione” e una moquette che ha assorbito così tante storie che potrebbe scrivere un’autobiografia.
In bagno ci aspetta l’accappatoio: sbrindellato, con cintura pendente tipo mutanda dimenticata in spiaggia dopo un uragano.
L’asciugacapelli è un cimelio bellico: funziona solo in modalità “vento artico”, il che lo rende utile solo per congelare rapidamente pesce fresco.
La doccia… ah, la doccia!
Acqua fredda. Non “fresca” o “temperata”: proprio acqua “sorgente del Polo Nord”. Ho persino cercato la fessura per le monetine, come nei campeggi anni ’80, sperando di attivare la modalità “umano vivente” invece di “pinguino felice”. Niente.
E poi i letti: due singoli, non il matrimoniale promesso. Distanti quel tanto che, se provi a parlare alla tua compagna, devi urlare come in un cantiere navale.
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L’invasione delle pecore-cameriere
Proprio mentre sto cercando di capire se ridere o piangere, entrano due pecore in uniforme, Dorothy e Brian, addette alla “customer experience”:
— “Tutto di suo gradimento, sir?”
— “Beh… l’acqua è un po’ fredda”.
— “Perfetto, è la nostra esclusiva Esperienza Glaciale™. Stimola la circolazione, i muscoli… e la voglia di scappare”.
Mi chiedono anche se preferisco “profumo di moquette umida” o “pino sintetico” per la stanza. Scelgo il pino, ma con la sensazione di aver comunque perso.
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Il ritrovamento sul comodino
Sto per sedermi sul letto quando Maddalena, curiosando, trova un libretto rilegato in finta pelle.
“Papà, cos’è questo?”
Lo apro e leggo ad alta voce: “Benvenuti al Pale Hotel – Guida Ufficiale per Ospiti di Classe… e per quelli che ci sono capitati per sbaglio”.
Sara si siede e mi guarda: “Leggi”.
Maddalena spalanca gli occhi così tanto che si piega in due.
Sara scuote la testa: “Almeno sono sinceri”.
Io resto zitto, fissando il soffitto, chiedendomi se il Pale non sia in realtà una setta segreta che seleziona ospiti da rovinare psicologicamente.
L’upgrade alla “Deluxe”
È in quel momento che bussa alla porta Dorothy, la pecora concierge.
“Ho sentito che avete apprezzato la nostra guida, signore. Per ringraziarvi, possiamo offrirvi un upgrade alla stanza Deluxe.”
“E in cosa consiste?” chiedo, con un filo di speranza.
Dorothy sorride (per quanto possa sorridere una pecora) e risponde: “Due saponette in più e il doppio di moquette umida”.
Sara mi fissa: “Se accetti, dormo in macchina”.
Io ci penso su… e per un attimo la macchina mi sembra un’opzione di lusso.
La rivelazione
In quel momento ho capito: il Pale Hotel non è un albergo. È una creatura malefica, un’entità viva, con un’anima sadica e un gusto raffinato per la delusione. Ti fa entrare tra velluti e poltrone da salotto reale… e poi ti piazza in una stanza che sembra la location di un vecchio sketch della BBC, di quelli dove alla fine esplode tutto senza motivo.
Il Pale non ti ospita: ti studia, ti illude, ti deride… e poi ti lascia solo, con il tuo asciugacapelli glaciale e l’accappatoio mutilato, a meditare sulle scelte sbagliate della vita.
- Pro: parcheggiano la macchina e il ristorante è buono.
- Contro: tutto il resto. Camera triste, accappatoio mutilato, asciugacapelli glaciale, doccia da lager siberiano, letti da orfanotrofio del ’52.
Il “Pale” non è per il colore delle pareti, ma per la carnagione dei clienti dopo la doccia fredda.
Suggerimento: se volete lusso, dormite nella vostra macchina.
La Soirée! Dress code: noi da lord, loro da sagretta paesana
Ci siamo preparati come se dovessimo cenare con la Regina:
Sara in lungo elegante, Maddalena splendida nel suo vestito rosso, io in giacca e camicia stirata a mano, scarpe scamosciate in tinta col vestito e quell’aria da “non ho mai sudato in vita mia” (finta, ovviamente).
Prima di uscire dalla camera ci guardiamo allo specchio e pensiamo: se fossimo in un film, adesso partirebbe un valzer.
Entriamo nel ristorante del Pale e… in tre secondi l’incantesimo si spezza.
Siamo gli unici ad aver rispettato il famoso “dress code formale” che ci avevano tanto sottolineato alla reception.
Gli altri clienti sembrano usciti da una sagra paesana di metà agosto:
• Turisti inglesi in ciabatte di gomma con calzino bianco modello “nonna in vacanza”.
• Uno con la maglietta “All you can eat survivor” e macchia di maionese in mezzo al petto, come medaglia al merito.
• Un altro in canotta, tatuaggi di drago sulle spalle, intento a combattere col pane come se fosse un torneo.
E poi… lui.
Seduto a un tavolo vicino alla finestra, imponente come una dichiarazione di guerra al buon gusto:
giacca viola sgargiante, camicia gialla acido, pantaloni verde bottiglia, mocassini bianchi e cravatta leopardata.
Un cappello a tesa larga completava l’opera, oscillando leggermente ogni volta che infilava la forchetta in bocca.
Era la reincarnazione turistica del personaggio di The Mask, ma in versione “pensione completa”.
Ogni volta che lo guardavo, mi aspettavo che da un momento all’altro urlasse “Ssssmokin’!” e che la sua lingua uscisse tipo tappeto rosso fino al buffet dei dolci.
Non si muoveva dal tavolo, non salutava nessuno: era lì, seduto, a masticare con la lentezza studiata di chi sa di essere la vera attrazione della serata.
E io non riuscivo a capire se fosse un cliente, un esperimento sociologico o il nuovo ambasciatore del cattivo gusto internazionale.
Sara mi sussurra: “Magari è vestito così perché il Pale lo permette”.
E lì ho capito: dovevo leggere attentamente il regolamento del loro dress code.
Ti dico la verità: in quel momento ho realizzato che non eravamo fuori posto per troppa eleganza, ma perché ci eravamo presi sul serio.
E al Pale, l’unica regola vera è… non prendersi mai sul serio.
La cena: l’unica cosa decente
La cena è eccezionale: piatti da chef stellato, sapori perfetti. Voto: 8 pieno.
Ma sono convinto che lo chef sia un ostaggio, tenuto lì da una pecora armata di forchettone: “Ancora un soufflé e poi puoi tornare libero”.
Torniamo in camera dopo la cena.
Il corridoio è silenzioso, a parte un rumore lontano che sembra il verso di una pecora ma con il tono minaccioso di un mafioso che ti ricorda di pagare il debito.
Apriamo la porta e ci troviamo davanti i due lettini singoli: perfettamente allineati, rigidamente separati, modello “colonia estiva Boscochiesanuova – Edizione Disciplina e Freddo Notturno”.
Ci manca solo la suora col fischietto che passa a controllare le luci spente.
Il romanticismo è evaporato da tempo, probabilmente già alla vista dell’accappatoio mutilato.
Sara mi guarda e sospira: “Nemmeno in ospedale mi hanno mai messo così lontano dal mio compagno di stanza”.
Maddalena, dalla camera accanto, grida: “Buonanotte, vi scrivo su WhatsApp se avete bisogno di qualcosa!”.
Cerco di pensare positivo: “Almeno non ci rubiamo il piumone”.
Poi scopro che i piumoni sono corti: se ti copri i piedi, hai le spalle nude; se copri le spalle, i piedi diventano subito due ghiaccioli Findus.
E il cuscino… un mistero: piccolo, piatto, con una consistenza a metà tra “gommapiuma esausta” e “paglia compressa”.
Mentre mi preparo a dormire, sento il materasso che emette un boing triste, come se sapesse già che non dormirò bene.
Mi giro e vedo Sara che, dall’altro letto, sembra pronta per una partita a battaglia navale: “Letto B3… affondato!”.
Provo a chiudere gli occhi, ma la moquette umida rilascia nell’aria un aroma persistente, una combinazione di “nonna con stufa a carbone” e “piscina comunale del 1978”.
Ogni tanto, da dietro il termosifone, un rumore: clic… gorg… pfffff.
Forse è l’impianto idraulico. Forse è Brian, la pecora, che sta caricando un fucile tranquillante per i clienti troppo vivaci.
A un certo punto, nel silenzio, Sara dice: “Sai cosa? L’anno prossimo il viaggio lo organizzo io”.
E io, fissando il soffitto beige rassegnazione, rispondo: “Solo se prometti di evitare hotel con nomi che ricordano lo spettro di un defunto”.
Passo la notte cercando una posizione in cui il materasso non tenti di piegarmi a metà.
Credo di aver trovato il sonno verso le 3:17, proprio mentre nel corridoio passava Dorothy, fischiettando “God Save the Queen” e spingendo un carrello con una sola saponetta sopra.
L’incubo del Pale
Forse in quel momento mi sono addormentato, forse ero già in coma da moquette.
Fatto sta che a un certo punto mi ritrovo…
E proprio mentre l’acqua gelida mi sta per colpire, mi sveglio di colpo, madido di sudore freddo (o forse era condensa della stanza), con Sara che mi guarda e dice:
“Ti agitavi e mormoravi qualcosa su una pecora con la parrucca. Forse è ora che cambiamo hotel”.
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