Sabato 09 Agosto – Al Palé… ancora!
(o “La lunga marcia verso il tè stantio”)
La notte è stata una sinfonia disturbata di sonno e veglia, una jam session di incubi surreali che avrebbero fatto invidia a David Lynch: pecore vestite da giudici mi condannavano a morte per aver osato mettere il latte nel tè prima della bustina. Sprofondati nei materassi di piuma del Palé, morbidi e profondi come la coscienza di un politico, avevo la netta sensazione che quell’alloggio fosse in realtà una scuola di addestramento per cadaveri freschi di obitorio.
Finalmente il giorno!
Mi trascino fino alla doccia… fredda. Non fresca. Fredda. Di quelle che ti fanno pensare: “Bene, ora posso anche uscire e dare la mano a un orso polare senza imbarazzo”.
Colazione: qui al Palé la lentezza è un’arte marziale. Sara e Maddalena hanno ordinato “due cosette”, io invece il classico pane tostato. Chiedo anche un caffè.
Aspettiamo. Aspettiamo. Aspettiamo ancora. Nel frattempo vedo crescere un bonsai.
Il caffè arriva finalmente in una tazzina da mignon del servizio da tè di Barbie. Non è espresso, no… è caffè americano, ma in versione “micro-dose terapeutica”.
Arriva tutto… tranne il mio pane. Quando finalmente me lo portano, lo guardo con rancore e decido per protesta di non mangiarlo. Lo lascio lì, gelido e solo, a chiedersi se anche lui, come noi, abbia sbagliato hotel.
“Va bene” mi dico, “troverò dei broccoli selvaggi lungo il cammino di oggi”.
Verso la Pistyll Rhaeadr… o la strada dell’orrore
Si parte con la nostra Volva (sì, Volva, non Volvo… le auto familiari in Galles hanno una loro identità e questa ha chiaramente deciso di essere un personaggio di Game of Thrones).
La strada… beh. Non è una strada. È un esperimento sociale: una striscia d’asfalto larga come un tovagliolo, affiancata da muretti di pietra medievali e siepi taglienti come lame. Il concetto di “piazzola di scambio” è qui un mito come Atlantide.
Sara, terrorizzata, mi dice: “Quindici minuti di terrore!”
A me sono sembrate due ore di interrogatorio della Gestapo. E il bello è che dovremo rifarla anche al ritorno.
Il parcheggio privato del clan MacPoundCoin
Arriviamo al punto di partenza: tutto, ma proprio tutto, è a pagamento. Il parcheggio, il respiro dell’aria, il sorriso del proprietario. C’è un B&B con bar… ma senza bagno. Per fare pipì bisogna attraversare la strada ed entrare in un gabbiotto a gettoni. Quasi come al Palé, ma qui almeno il bagno c’è.
La cascata… e la scalata dell’Eiger (Extended Director’s Cut)
Dopo appena dieci passi — e sottolineo dieci, li ho contati per sicurezza — la cascata è lì davanti a noi, Pistyll Rhaeadr, che scroscia rumorosa come un rubinetto lasciato aperto in un appartamento al quinto piano. La guardiamo con un misto di ammirazione e fastidio: ammirazione per la bellezza, fastidio perché siamo equipaggiati come per un’ascensione himalayana e lei ci si presenta così, immediata, quasi sfacciata.
Ovviamente, noi non siamo il tipo di turisti che si accontenta del “guardare e fotografare”. No. Noi dobbiamo complicarci la vita. Così, al bivio, dove a sinistra si snoda un sentiero pianeggiante, rassicurante, perfetto per famiglie con passeggini, e a destra si erge una salita ripida e minacciosa, noi scegliamo senza esitazione la salita. Perché? Perché il buon senso è sopravvalutato.
Appena mettiamo piede sul sentiero inclinato, capiamo che la parola “sentiero” è un termine eccessivamente generoso. Più che un sentiero, è un omaggio a Sir Edmund Hillary, solo che invece di scalare l’Everest, qui sembra di affrontare un muro di roccia gallese cosparso di fango e tradimento.
Salire non è un’azione, è una coreografia:
• mani aggrappate a radici esili come spaghetti cotti,
• piedi che cercano appigli su rocce scivolose come sapone da hotel,
• ginocchia che si piegano in angolazioni non previste dalla fisiologia umana.
A metà salita, mi volto a guardare Sara, che mi fissa con quell’espressione di chi sta mentalmente preparando le carte per il divorzio. Maddalena invece è già in cima, saltellante, piccola capretta di montagna con la grazia di chi pesa venti chili e non ha ancora conosciuto il mal di schiena.
Io, invece, penso che il mio cuore stia tentando un’evasione dal petto e che i miei polmoni stiano per inviarmi un reclamo scritto.
Il fango è il vero protagonista: si attacca alle mani, alle ginocchia, all’anima. Ogni volta che cerco di fare un passo in avanti, scivolo indietro di mezzo. È come un tapis roulant verticale ideato da un ingegnere sadico.
A un certo punto, incontro una pietra grande quanto un frigorifero, e provo a superarla. Per farlo devo arrampicarmi usando non solo le mani, ma anche il mento e una tecnica di rotolamento poco dignitosa, che in un’altra vita mi avrebbe fatto guadagnare un posto nel Cirque du Soleil.
Finalmente, dopo quello che sembra un giorno e mezzo, raggiungiamo una sorta di falso pianoro. Maddalena è lì che ci aspetta, con la tranquillità di chi ha appena fatto due passi in giardino. Sara arriva subito dopo, lanciando occhiate che dicono chiaramente: “Se muori qui, ti ammazzo io”.
E qui arriva la sorpresa.
Il famoso sentiero circolare, quello che secondo la guida e la nostra mappa doveva portarci alle miniere e poi ridiscendere dolcemente a valle… non c’è.
Non “non lo vediamo bene”.
Non “forse è più in là”.
Non c’è. È come se fosse stato inghiottito dalla montagna, evaporato nel tempo, cancellato da un misterioso decreto reale.
Controlliamo il GPS, che ci indica con freddezza che sì, dovremmo essere esattamente sopra il punto di inizio del sentiero… solo che al posto del sentiero c’è una muraglia di felci alta quanto un giocatore di basket.
Maddalena propone di andare dritti. Sara sospira. Io, ovviamente, accetto, perché non ho imparato niente da tutto questo.
Incontri pecoreschi
È proprio mentre ci troviamo intrappolati nella giungla gallese di felci alte quanto noi — e probabilmente abitate da creature che nemmeno Tolkien avrebbe osato inventare — che sentiamo un fruscio sospetto.
Il fruscio diventa un tintinnio di campanellini.
Il tintinnio diventa… un coro.
E all’improvviso, dalla nebbia delle felci, sbuca un gruppo di pecore vestite da scout.
Ma non “tipo” scout:
• Cappellini verdi a tesa larga, con spilla a forma di quadrifoglio.
• Fazzoletto annodato al collo.
• Zainetti in tela cerata, con borracce di metallo.
• Cartine topografiche così grandi che servono due pecore per aprirle.
La pecora in testa — riconoscibile perché porta occhiali da lettura e un fischietto appeso al collo — si ferma davanti a noi e ci squadra con aria professionale.
Pecora Capo (con accento gallese impeccabile): “Buongiorno, escursionisti umani! Siete persi?”
Io: “Forse… e voi?”
Pecora Capo: “Noi? Mai! Solo che la nostra mappa è del 1873 e questo bosco nel frattempo è stato spostato di due miglia a nord per esigenze paesaggistiche.”
Dietro di lei, una pecora più giovane prende appunti su un taccuino, annuendo gravemente.
Sara (sottovoce): “Edoardo… stiamo parlando con pecore?”
Io: “Sì, ma non interrompere. Mi sembra gente seria.”
La Pecora Capo fischia, e altre due pecore srotolano una carta geografica che si estende per tutta la radura. Noi ci avviciniamo: mostra un intricato sistema di sentieri, ma le annotazioni sono tutte in un misto di gallese antico e… ricette di torte salate.
Pecora Capo: “Allora, per uscire vivi dovete seguire il sentiero invisibile, poi girare al sasso che sembra un cammello, ma non troppo.”
Maddalena: “E se sbagliamo?”
Pecora Capo: “Allora… vi mangeranno le felci.”
Segue un silenzio pesante, interrotto solo dal rumore di una pecora che mastica rumorosamente un panino al cetriolo.
Io vorrei chiedere altro, ma la Pecora Capo si mette sull’attenti e inizia a cantare un inno scout in perfetto inglese, con le altre che fanno il coro:
“Onward ovine soldiers, marching as to tea…”
Il gruppo poi si allontana in fila indiana, scomparendo tra le felci come se nulla fosse, lasciando dietro di sé solo un vago odore di lana bagnata e Earl Grey.
Noi riprendiamo a camminare, ovviamente ignorando il consiglio, perché il “sasso a forma di cammello” non si trova.
Dopo dieci minuti, ci rendiamo conto di essere ufficialmente dispersi… e che forse le felci stanno iniziando a guardarci male.
Missione abortita. Torniamo a valle per un canalone scivoloso e rientriamo alla macchina. Percorso non completato… ma ridendo come idioti.
Afternoon tea (o la vendetta del sandwich raffermo)
Lasciamo la micro-strada dell’orrore — che, ne sono certo, è stata progettata in epoca vittoriana per testare la capacità di sopravvivenza degli inglesi — e ci dirigiamo verso Lake Vyrnwy.
Il paesaggio che ci accoglie sembra uscito da un libro di fiabe illustrato da un monaco del XIV secolo: acqua calma come uno specchio ben lucidato, ponti di pietra che non collegano due punti ma due epoche storiche, torri che sembrano uscite da un set di Harry Potter, e colline ricoperte di boschi così fitti che persino Google Maps si rifiuta di mappare.
Arriviamo al Tower Restaurant, un elegante edificio di pietra che, dalla brochure, promette un Afternoon Tea da urlo: scones caldi, sandwich freschi, tè profumato e servizio da nobili normanni. Noi, già stanchi e infangati dalla scalata, entriamo con l’aria di chi sta per essere accolto da un maggiordomo che ti chiama “sir”.
Al tavolo con vista lago ci sediamo compiaciuti. Immagino già il vassoio che arriva fumante, con gli scones fragranti e il tè che profuma d’India.
Poi arriva lui.
Il cameriere.
O meglio… la pecora in giacca da cameriere.
Non sto scherzando. Giacca nera, papillon rosso, vassoio sotto lo zoccolo. È una delle pecore scout incontrate poco prima, ma ora con un’aria da maître di lungo corso.
Pecora Cameriere: “Buon pomeriggio, signori. Sono Gareth ap Wool, responsabile della selezione tè e antipasti. Gradite il tè del giorno?”
Io: “Certo… cos’è?”
Pecora Cameriere: “Infuso speciale di menta fresca del prato… e quando dico ‘fresca’, intendo che l’ho strappata dieci minuti fa mentre pascolavo dietro l’angolo.”
Sara mi guarda con l’espressione di chi sa che oggi il pranzo è già rovinato.
Il tè arriva. Acqua tiepida con dentro tre foglie galleggianti e una formica che sembra chiedere asilo politico.
I sandwich, nel frattempo, fanno la loro entrata scenografica: pane bianco dalle croste giallognole, ripieno talmente sottile che sospetto sia stato disegnato con un pennarello alimentare. Uno in particolare ha il cetriolo tagliato così sottile che si vede attraverso.
Maddalena: “Papà, credo che questo sandwich sia un ologramma.”
Gli scones… ah, gli scones. Duri come mattoni medievali. Il primo tentativo di taglio mi fa sobbalzare il coltello, che per poco non decolla verso il lago.
Il burro? Solido come il ghiaccio del Polo Nord. La clotted cream? Un misterioso impasto che potrebbe essere usato come sigillante per tetti.
Sara: “Se sopravviviamo, io scrivo a Tripadvisor.”
Io: “Sì, ma dalla prigione, per diffamazione.”
Intanto la Pecora Cameriere si ferma a raccontarci, con orgoglio, che il menù è ispirato a ricette del 1890, anno in cui un conte locale perse tutti i denti proprio per colpa degli scones, e da allora il ristorante ha mantenuto fede alla tradizione.
Ogni tanto il cameriere-pecora si allontana per andare a brucare un po’ d’erba vicino all’ingresso, tornando poi a chiedere se gradissimo un “refill” di tè. Io accetto, ma il secondo giro è ancora più trasparente del primo.
A un certo punto, noto che la sala si sta riempiendo di altre pecore: una con un vassoio di marmellata, un’altra che suona il pianoforte in sottofondo (male, ma con entusiasmo), e una terza che distribuisce volantini per il “Corso Avanzato di Pasticceria Lanosa – Come indurire uno scone in soli 24 ore”.
Quando finalmente ci alziamo, sazi non tanto di cibo quanto di ironia e fibre vegetali, la Pecora Cameriere ci accompagna alla porta.
Pecora Cameriere: “Spero vi siate trovati bene. La prossima volta, provate il nostro Full Welsh Afternoon Tea: tre ore di chewing gum al gusto di agnello e tè fermentato sotto una coperta di lana.”
Usciamo ridendo, con il panorama del lago che — bisogna ammetterlo — riesce a cancellare in parte il trauma culinario.
Il tè lo dimenticheremo? Forse. Gli scones? Mai. Sono sicuro che uno di loro è ancora lì, in cucina, ad aspettare di essere usato come fermaporta.
Ritorno nelle segrete del Palé
Rientriamo al Palé con quella sensazione che provi quando, dopo una giornata di fatiche, stai per tornare a casa… solo che “casa”, in questo caso, è una prigione di lusso con arredamento vittoriano e un’aria da Cluedo in tempo reale.
Appena entriamo in camera, la moquette sembra più stanca di noi e i materassi, quei sarcofagi di piuma in cui sprofondiamo ogni notte, ci guardano come per dire: “Ah, siete tornati… pronti per un altro passo verso l’aldilà?”.
Sara decide di affrontare la doccia.
Il doccino, però, è collocato in un punto talmente strategico che nemmeno un contorsionista del Cirque du Soleil riuscirebbe a usarlo: incastrato nell’angolo più lontano della vasca, puntato contro un muro, a un’altezza che obbliga a scegliere tra lavarsi i capelli o farsi la scoliosi.
Quando finalmente riesce ad aprire l’acqua, scopriamo che la pressione è quella di una fontana nel deserto del Gobi al terzo anno di siccità. Due gocce, tre se preghi forte. L’acqua cade così piano che abbiamo il tempo di discutere su cosa ordinare per cena tra un filo e l’altro.
Proprio mentre ci stiamo asciugando, arriva l’invito ufficiale dalla direzione: un “evento gourmet esclusivo”, riservato a dieci ospiti selezionati.
Prezzo? L’equivalente di un caccia F-18 dell’aeronautica americana (modello base, senza missili).
Il menù promette “esperienze sensoriali uniche” e “piatti che parlano al cuore” — sì, probabilmente per chiedere aiuto.
Ci dicono che sarà servito in giardino, con lampade soffuse, musica dal vivo e un cuoco che “ha studiato a Parigi”. Parigi, Ohio, sospetto.
Rispondiamo con un elegante “no, grazie” e optiamo per Plas Yn Dre a Bala, dove il personale ci accoglie con sorrisi veri, non programmati dal reparto marketing, e dove il cibo è davvero buono. Veniamo serviti con amore e interesse: il cameriere ci chiede come stiamo prima di chiederci cosa vogliamo ordinare — un dettaglio che al Palé sarebbe stato considerato tempo perso.
Usciamo pieni, felici e quasi commossi.
Poi, inevitabilmente, rientriamo nelle segrete del Palé, nei nostri letti-bara, pronti a sprofondare di nuovo in quel sonno sospeso, tra il soffice piumino e l’eco lontana di un campanello da tè che suona nella sala delle pecore.
Domani si scappa. E stavolta sul serio.
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