Il Castello dei Cazzoni e la Pedicure all’Inglese
📍 Dalle campagne inglesi – Elms Hotel & Eastnor Castle
La mattina ci sorprende con una calma disarmante. Dopo la tempesta (emotiva) della sera prima, quando abbiamo scoperto che il castello prenotato non era quello giusto – un dettaglio da poco, tipo prenotare una pizza e ricevere una ciabatta – oggi ci svegliamo nella tranquillissima campagna inglese, dentro le sontuose mura dell’Elms Hotel. Un posto elegante, di quelli con il parquet che scricchiola ad ogni passo come se volesse raccontarti i segreti degli ospiti precedenti, e la moquette talmente spessa che Maddalena ci ha perso dentro un calzino e un pezzo di infanzia.
Addio pecore gallesi, almeno per ora. Qua le uniche pecore sono quelle nei quadri alle pareti, dipinte con espressioni da vecchi lord inglesi. Nessun belato umano, niente complotti ovini. Solo tè, porcellane e pavoni (veri) che camminano nei giardini come se avessero una cena con la regina.
Il Castello dei… Cazzoni (con tutto il rispetto)
Oggi l’obiettivo è Ledbury, delizioso villaggio con case a graticcio e vocazione per la tranquillità. Ma soprattutto andiamo a visitare Eastnor Castle: imponente, scenografico, con tanto di torrette e fossati, il tipo di posto dove ti aspetti che da un momento all’altro arrivi un maggiordomo a offrirti un gin tonic e un problema dinastico da risolvere.
Parcheggiamo. C’è un cartello che recita: “Labyrinth this way”.
Occhi di Maddalena: 💥
Cuore di Maddalena: 🌀
Capacità di orientamento di Maddalena: ❌
Ci buttiamo dentro col sacro entusiasmo degli eroi greci, ma prima c’è il castello da esplorare. La visita inizia tra stanze elegantissime, salotti con divani che costano quanto un’automobile, e sale da pranzo in cui immaginiamo facilmente un Lord Cocks seduto a capotavola, mentre discute con la servitù del colore delle sue calze.
Sì, hai letto bene. Cocks.
La famiglia originaria si chiamava così. E in un attimo, il castello si riempie nella nostra immaginazione di nobili con monocolo, tuba e doppi sensi.
«Benvenuti al castello dei Cazzoni!»
—“Grazie, è un onore, contessa Tette di Lino.”
Per fortuna, come ci spiegano i pannelli informativi, a un certo punto della storia i Cocks sono finiti (non si sa bene come) e le figlie, sposandosi, hanno cambiato cognome. Almeno adesso, chi visita il castello può raccontarlo ai parenti senza arrossire.
Ma le sorprese non sono finite: è proprio qui che hanno girato lo storico film Il Piccolo Lord.
E in effetti, tutto ha quel tocco da melò inglese fine anni ’70, con le tende che svolazzano da sole, i camini accesi anche d’estate e quell’aria costante da “un bambino gentile cambierà il cuore di un burbero aristocratico”.
Spoiler: non è successo. Ma ci abbiamo provato.
Il castello è magnifico. Stanze enormi, tende spesse come tappeti volanti, e mobili antichi che sembrano urlare: “Non appoggiateci neanche lo sguardo!”.
La visita si snoda tra il piano terra, saloni, scale nascoste e il piano nobile. Tutto perfettamente arredato, perché — sorpresa — il castello è ancora abitato. Dal 1989, infatti, i discendenti si sono ritrasferiti tra quelle mura grazie anche al sostegno economico del programma Land Rover Experience, che permette di guidare fuoristrada nei campi del castello. Ovvero: se sei abbastanza ricco, puoi vivere in un castello e passare i weekend a guidare sulle aiuole.
Lost in Labirinto
Finito il tour, il momento più atteso: il labirinto.
La famiglia si divide. Maddalena parte a razzo con la sicurezza di Teseo con Google Maps. Io cerco di seguire il suo entusiasmo e invece vado a sbattere contro dieci siepi e due comitive di turisti.
Sara, saggia come sempre, trova una torre d’osservazione. La vediamo in cima, che gesticola come una regista frustrata:
«A destra! No! L’altra destra! Ma com’è che ogni volta finisci nel cespuglio?!»
Alla fine ci ricongiungiamo nel centro. Maddalena è felice, io sudo, e Sara si gode la scena dall’alto come la vincitrice morale. Il ritorno verso l’uscita è epico: 45 tentativi, 27 inversioni, 3 richieste di aiuto in lingue sconosciute. Ma ce l’abbiamo fatta.
Il Mito del Wellington Inn
Sfinita, la truppa ha fame. La scelta ricade su The Wellington Inn. Sara è ispirata. Io temo una trappola per turisti, invece…
…è amore a prima pinta.
Entriamo. Una doppia porta in legno scricchiolante ci accoglie come un portale verso un’altra epoca. Al bancone, lui. L’Uomo. Il Mito. L’Oste.
Camicia bianca, aperta quanto basta per vedere il petto orgoglioso di chi ha tirato pinte tutta la vita. Sguardo da guru del malto.
Ci guarda e fa:
«Chiara o scura?»
Panico. E se sbagliamo? E se ci giudica?
Niente paura. Ce le fa assaggiare. Una alla volta. Come in una cerimonia sacra.
Sara sceglie la chiara. Io la scura. Brindiamo. Ordiniamo. E — colpo di scena — si mangia benissimo.
Un pub da segnare sulla mappa. Uno di quei posti dove, se torni fra vent’anni, troverai lo stesso oste, con la camicia ancora più aperta, e la birra sempre perfetta.
Relax e Delusione (ma con stile)
Alle 16:00 appuntamento alla spa dell’hotel. Siamo pronti per il meritato relax. Strade strette come un’arteria intasata dopo cinque bacon roll, ma ce la facciamo.
Sara entra per prima.
Poi tocca a me e Maddalena.
E qui… la tragedia.
«Mi dispiace, la ragazza non può fare né massaggio né trattamento viso. Solo dai 18 anni in su.»
Perdonateci, ma… che regole sono?
Siamo in Inghilterra, il paese dove a 14 anni puoi votare per il sindacato scolastico, ma non puoi farti mettere una maschera idratante.
Nel dubbio, optiamo per un’alternativa: pedicure all’inglese.
Errore madornale.
Un uomo entra con una tuta da carrozziere, tira fuori una spatola da muratore e vernicia le unghie di Maddalena come se stesse rifacendo la segnaletica stradale.
Maddalena ride. Poi piange. Poi ride di nuovo.
Io trattengo le lacrime. Sara esce rilassata. E noi, beh… noi ci portiamo a casa un’esperienza.
Cena di lusso (ma solo di prezzo) all’Elms Hotel
La giornata si chiude con la cena al ristorante del nostro hotel, il prestigioso The Elms Hotel. L’ambiente è elegante, luci soffuse, tavoli ben distanziati. Ci sediamo. L’aria promette esperienza da guida Michelin, il cuore spera, lo stomaco ringrazia in anticipo.
E invece… il primo segnale arriva subito: le tovaglie. Ci sono (miracolo, ormai nei ristoranti è un evento), ma emanano un leggero aroma di freschino. Sai quella fragranza da armadio di campagna chiuso dal 1963? Ecco. Ci rassegniamo. Poi notiamo che i tovaglioli sono di carta. In un hotel di lusso. Con tanto di piega industriale. Un po’ come mettere i cerchi in lega su una Panda a metano.
Il cameriere che ci prende l’ordine è di Madeira. Gentilissimo, ma logorroico come un tassista di Lisbona alle due di notte. In pochi minuti veniamo a sapere che:
• Qui, quando parlano di “pesce fresco”, intendono “appena tolto dal congelatore”.
• A Madeira invece c’è il mare vero.
• Le bottiglie di vino costano 2,50 €.
• Lui, a Madeira, mangiava solo quello pescato al momento.
Sì, tutto molto interessante. Ma intanto… ordiniamo?
Il servizio: l’arte della lentezza
L’attesa è lunga. Lunghissima. E le portate arrivano in asincronia: Maddalena guarda il mio piatto vuoto mentre io guardo Sara che mangia, in un loop gastronomico senza pietà. È come essere in una cena a staffetta, ma senza staffetta.
L’antipasto: la tartare “mistero”
Io ordino una tartare.
Mi arriva un piatto che sembra macinato del supermercato con un’unica nota di gusto: il cappero. Niente contro il cappero, eh… ma se avessi voluto mangiare solo quello, andavo in dispensa a prendere il barattolo e finiva lì.
Il main: la “Japanese Aubergine” (versione interpretativa)
Sara, attratta da un nome esotico e seducente, ordina la “Japanese aubergine”. Nome francese, accento orientale, piatto… completamente privo di identità. Gusti dissonanti, squilibrati, senza capo né coda. Un caos in porcellana.
Dopo tre bocconi, ci guardiamo: “Ma che roba è?”. Nessuno sa rispondere.
Il vino (quello misterioso)
La scelta del vino si rivela più complessa che decifrare un codice cifrato. Spieghiamo due volte cosa vorremmo, delirio di incomprensioni. A quel punto beviamo, non per piacere ma per dimenticare.
Il colpo di grazia: il dessert fantasma
Il cameriere ci porta il menù dei dolci. Lo sfogliamo. Lo troviamo: il dolce perfetto. Ci guardiamo complici. È destino.
Poi… il menù ci viene tolto di mano:
«Scusate, quello era sbagliato.»
Arriva quello “giusto”. E, ovviamente, il dolce perfetto non c’è. Fine del sogno.
L’unica nota positiva
Si salva all’ultimo minuto l’Espresso. Finalmente un caffè quasi degno di questo nome, non quei 2 litri di brodo marrone che spesso passano per “caffè”. Piccolo, intenso, vero. Un sorso e via.
Bilancio finale
Usciamo sazi… di storie da raccontare. L’unica vera nostalgia è per il Wellington Inn del pranzo: semplice, onesto, con la birra buona e il cibo fatto col cuore.
Qui all’Elms, invece, la cucina era una lunga chiacchierata con Madeira, con intermezzi alimentari. Lusso nell’arredamento, ma in cucina… un labirinto peggiore di quello di Eastnor Castle.
Domani si torna in Galles.
Dove le strade sono più strette, le pecore più loquaci e la realtà… molto meno reale.
Comments ()