Pizza radioattiva, castelli truffaldini e lo scambio di persona tra due Hampton Court
Lasciamo il Penmaenuchaf Hotel con un certo struggimento. Non solo per le coccole ricevute — tra cuscini, tè e moquette da ballo liscio — ma anche perché sappiamo che da oggi si cambia registro: si va verso il confine con l’Inghilterra. Fine del Galles profondo, delle pecore con l’accento gallese e delle strade larghe quanto una costoletta d’agnello.
Il programma? Oggi si viaggia parecchio, e per la prima volta ci trasformiamo ufficialmente in turisti da quattro soldi. La giornata parte con una lunga tratta in macchina interrotta solo da un momento che si rivelerà epocale: il pranzo alla pizzeria Fabbrizio’s (con due “b”, come la bestemmia che ti esce dopo il primo morso).
Ora, voi che ci seguite da casa potreste pensare: “Ma dai, pizza all’estero, quanto può essere male?”
Ecco: immaginate un cartone da imballaggio, condito con passata acida e mozzarella filante… tipo silicone. La pizza di Fabbrizio’s è così tenace che probabilmente ce la porteremo nello stomaco fino a Verona. Sara giura di aver sentito l’impasto dire “help me” al secondo taglio. Maddalena, che ha più fegato di tutti, ha mangiato due fette e ha detto: “Papà, mi sa che sto vedendo i colori dell’infinito”.
Io ho ordinato una tonno e cipolla, che nel menu veniva descritta come “una sinfonia di semplicità italiana”. Quando è arrivata, più che una sinfonia era un’esplosione punk: il pomodoro era crudo, la mozzarella sembrava una gomma da cancellare bianca, e la base era talmente rigida che si poteva usare come palette da muratore. Fabbrizio, ovunque tu sia, ti auguriamo comunque ogni bene… magari con un bel corso base di cucina.
Con lo stomaco rivestito di cemento armato, ci rimettiamo in macchina direzione Powis Castle, la vera attrazione della giornata. Le aspettative sono altissime: oltre cento stanze, una reggia vera, degna di Game of Thrones. Ma come spesso accade… plot twist: se ne possono visitare sei. Sì, sei. Nemmeno una per ogni ora di viaggio. Inizia a girare l’ombra del dubbio: che sia tutta una gigantesca presa in giro?
Per fortuna le sei stanze sono belle. Anzi, magnifiche. Quadri, boiserie, tende che sembrano fatte con i tessuti delle nonne regali. Maddalena finge di svenire su una chaise longue, io sogno di organizzare una cena di gala con pecore in frac e Sara fa finta di sapere tutto sulle dinastie nobiliari gallesi (e in effetti, probabilmente lo sa).
I giardini, quelli sì, sono da perdere la testa: terrazze verdi, aiuole geometriche, e alberi potati con una precisione che sfiora l’ossessione. Ci perdiamo tra i vialetti per almeno mezz’ora, solo per scoprire che siamo tornati al punto di partenza e che il GPS qui non prende manco a piangere.
A un certo punto ho incrociato una pecora da giardino — sì, proprio una di quelle scolpite nel bosso — e ho giurato di averla sentita dire: “Benvenuti a Powis Castle. Le stanze sono poche, ma il conto è completo. Godetevi il verde, illusi!”
Poi, di nuovo in macchina, con i muscoli ormai piegati al destino da tappezzeria automobilistica. Ma ecco che arriva la redenzione: The Elms Hotel & Spa. Appena arrivati facciamo il check-in come se avessimo appena scalato l’Everest, poi cambio costume e via: spa, sauna, bagno turco e piscina. Finalmente il corpo si arrende al piacere. Io e Sara ci guardiamo, con un asciugamano in testa e lo sguardo di chi ha appena visto la Madonna nella nebbia del bagno turco.
Maddalena nuota felice, mentre io sento i dolori delle camminate di questi giorni dissolversi come nebbia al sole. Lo chiamiamo “effetto spa”, ma in realtà è più simile a una resurrezione.
La cena è al The Manor at Abberley, un ristorante dove finalmente l’Inghilterra alza la testa e dice: “Sì, anche noi sappiamo cucinare decentemente!”. Piatti curati, servizio gentile, un ambiente elegante ma senza quella puzza di moquette bagnata tipica delle case nobiliari abbandonate. Ottimo ricordo.
Tornati in hotel, ci concediamo l’ultimo drink, in un salottino così britannico che ci aspettavamo di vedere Miss Marple sbucare da un divano. È qui, tra un Armagnac e una risata, che accade l’imprevisto del secolo.
Parliamo del programma per domani: “Visiteremo il castello di Enrico VIII, wow!”, dico io.
E Sara, con sguardo fiero da generalessa del viaggio: “Sì, l’Hampton Court Castle.”
Silenzio.
Io la guardo. Lei mi guarda.
Le dico: “Ma Sara… il castello di Enrico VIII è L’Hampton Court Palace… a Londra!”
Pausa drammatica.
Momento panico.
I biglietti sono già presi. Il castello “vicino a noi” non è visitabile, solo i giardini.
Il vero Hampton Court Palace dista cinque ore di macchina, cioè un salasso in termini di benzina, tempo, e pazienza. Maddalena già prepara il cartello “Help me” da esporre al lunotto posteriore.
Sara sbianca, poi ride. E qui succede una cosa meravigliosa: non entra nel panico. Apre i suoi appunti — e fidatevi, gli appunti di Sara sono meglio del Bignami e del Codice da Vinci messi insieme — e nel giro di cinque minuti ha già pronto un piano B, C e anche D.
Siamo salvi.
La verità è che lei è la mente, e noi siamo… beh, la mandria.
Ma una mandria felice. E stasera, mentre beviamo e ridiamo, sappiamo che anche se domani visiteremo un altro giardino, o finiremo in una sagra del fungo fritto, sarà comunque un’avventura da raccontare.
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