Riflessioni sul Galles

(cronaca sentimentale di un addio inzuppato di pioggia e cheddar)

Riflessioni sul Galles

C’è sempre un momento – di solito in aeroporto, tra un caffè che sa di filtro dell’olio e una brioche salata che medita vendetta – in cui capisci che il viaggio, quello vero, sta chiudendo il sipario. Il nostro è calato con una navetta Avis puntuale come un metronomo, il drop-off più indolore della storia e una lounge così minimal da far sembrare opulento un distributore automatico. Sara ha scelto un succo prudente, io un caffè filosofico, Maddalena… una brioche al formaggio.

L’aereo è atterrato liscio, l’alieno-brioche un po’ meno.

Eppure, proprio lì, tra gate e rulliere, ho capito che il Galles ci aveva cambiati di nuovo: ci aveva sciacquati, asciugati male e rimandati a casa con un’allegria stranamente leggera, di quelle che si confondono con la malinconia e fanno male solo se ci pensi troppo.

Forse è questo il segreto: i viaggi non finiscono mai quando finiscono. Restano in sospensione, si infilano nei sogni e nei dettagli quotidiani. Un odore di pioggia che non è la nostra, un tramonto che sembra uscito da una valle gallese, il ricordo di una strada stretta che ti fa sorridere da solo mentre sei fermo al semaforo di Verona.

E allora ti accorgi che la nostalgia non è un peso, ma una riserva segreta: serve a ricordarti che sei stato vivo, davvero.


Prima che tutto cominciasse (o della nostra incoscienza programmata)

Avevamo un piano, naturalmente: colonne Excel, mappe, sogni pronunciati in gallese con più consonanti che fiato. “Anglesey! Yr Wyddfa! Castelli, menhir, pecore che citano i bardi!” Era tutto scritto con l’entusiasmo di chi non ha ancora visto una strada gallese alle 17 sotto la pioggia orizzontale.

La verità, però, è che anche se il piano è cambiato cento volte, lo spirito è rimasto quello: andare, perdersi, ridere, ritrovarsi.

È in quell’improvvisazione che abbiamo trovato la parte più vera del viaggio. È lì che il Galles ha deciso di mostrarci non solo i suoi castelli e le sue cascate, ma anche la sua ironia segreta, quella che nasconde nelle piccole cose.

Ed è curioso come, ora che siamo a casa, siano proprio quei piccoli imprevisti a tornare più spesso nella memoria: la curva sbagliata, il sentiero che svanisce, il pub trovato per caso. Forse perché è in quei momenti che smetti di essere turista e inizi, timidamente, a sentirti viaggiatore


Il Triumvirato

Siamo in tre, si sa. Sara – stratega col sorriso, cartografa delle soluzioni impossibili, capace di sdoganare un piano B mentre tu cerchi ancora il GPS nel taschino. Maddalena – capretta di montagna, giudice incorruttibile dei pub, domatrice di labirinti (e di camerieri logorroici). Io – autista recidivo sulle strade da angioplastica dell’anima, cronista con il fiato corto e una predilezione per la moquette (purché non viva).

Eppure il viaggio ha creato anche una famiglia “allargata”: Wynne e Meinir – telecroniste ovine di provincia, precise come due VAR in giacca di lana – e il Ragno Ninja, l’antagonista notturno che ha scelto l’ala sinistra di Sara come palcoscenico. Figure improbabili eppure necessarie: senza di loro questa avventura avrebbe avuto meno colore, meno follia. Forse meno amore.

E oggi, rileggendo queste storie, ci rendiamo conto che la vera ricchezza di un viaggio non è la lista delle cose viste, ma le persone – reali o immaginate – che lo abitano con te.


Il Palé, ovvero la scuola dell’autoironia obbligatoria

Del Palé ricorderemo tutto: l’ingresso da film, la camerata da colonia, la Doccia Polare™ alimentata da un iceberg in affido, l’accappatoio con passato turbolento, il dress code “formale” applicato a giorni alterni (tranne per The Mask in cravatta leopardata), e Dorothy & Brian – pecore concierge, esperte in “Esperienza Glaciale” e in upgrade che raddoppiano la moquette umida.

Ci ha fatto ridere tanto, ma ci ha anche insegnato un dettaglio malinconico: il lusso, senza calore, resta vuoto. Una lezione che ci porteremo dietro, perché ridere di certe assurdità è l’unico modo per salvarle dalla dimenticanza. E forse, in fondo, ci siamo affezionati anche a quel posto sbagliato, perché i posti sbagliati hanno la forza di scolpirsi meglio nella memoria.

E ripensandoci ora, c’è quasi tenerezza nel ricordare quanto ci sembrasse grottesco. Il Palé non è stato un errore, ma un maestro: ci ha insegnato che non esiste comfort che valga più di una risata condivisa.


La moquette delle pecore (e la diplomazia dell’automobilista esausto)

Sulle creste della Panorama Walk ci hanno accolti Margaret ed Edith, due anziane signore dal vello impeccabile che ogni mattina battono il sentiero “per i foresti”, ricamando punti a croce sul prato. Prima ci hanno guidati, poi rimproverati (“non pestate il motivo a spina di pesce”), infine adottati.

Camminare lì, con il vento che ci piegava i capelli (anche quelli che non abbiamo più), è stato forse il momento più gallese di tutti. Un istante in cui ci siamo sentiti piccoli ma accolti, stranieri ma a casa. Ed è per questo che, anche oggi, ripensando a quella moquette viva, il cuore ha un sussulto.


Cascate, felci e té che indurisce i denti

Pistyll Rhaeadr si è fatta vedere subito, come quelle bellezze che non hanno bisogno di marketing. Ma noi, testardi, abbiamo scelto la variante himalayana: fango, ginocchia in grammatica creativa, sassi vischiosi, sentiero evaporato e comparsa di un reparto scout… ovino.

Più tardi, sulle sponde di Lake Vyrnwy, ci hanno servito un afternoon tea invecchiato in botte: sandwich paleontologici, scones da edilizia, infuso “menta & formica”.

Abbiamo riso come scemi, è vero. Ma sotto quella risata c’era già un po’ di malinconia: la consapevolezza che quei panorami, così perfetti, non li avremmo rivisti per un bel po’. E allora ridi più forte, perché ridere è il modo migliore per trattenere la nostalgia prima che ti scappi di mano.


Snowdon, il tetto di un sogno

Lo Snowdon non è stata solo una montagna: è stato un rito.

La salita ci ha fatto sudare, imprecare, ridere e ricompattare come squadra. Ogni passo era un “e se mollassimo qui?”, ma ogni sguardo era un “andiamo ancora un po’ più su”.

In cima, finalmente, il mondo si è aperto, si fa per dire, non si vedeva ad un palmo dal naso. Panorama smisurato, nel senso che non potevamo misurarlo, vento che ti spazza via i pensieri e la sensazione di essere minuscoli ma vivi, così vivi da poter gridare e sperare che l’eco arrivi fino a Verona.

Non so se ricorderemo i dettagli del sentiero, i sassi instabili o il panino stropicciato nello zaino che non avevamo. Ma ricorderemo per sempre quella cima: lo sguardo di Sara che rideva, Maddalena che si arrampicava come se fosse nata per stare lì, e io che cercavo invano le parole. Perché in certi momenti non servono.

Ecco, lo Snowdon ci ha insegnato questo: le vette non si conquistano, si condividono.

E oggi, a distanza di giorni, resta quell’immagine invisibile: il bianco delle nuvole che copriva tutto, e dentro quel nulla, la certezza che eravamo esattamente dove volevamo essere.


Cader Idris, il gigante che ti cambia

Se lo Snowdon è stato il sogno, il Cader Idris è stato l’incantesimo.

La scalata più bella, più dura, più nostra.

Una di quelle giornate in cui la montagna ti guarda dritto negli occhi e ti chiede: “Sei sicuro di voler conoscere davvero chi sei?”

La fatica ci ha spezzato il fiato e piegato le gambe, ma passo dopo passo abbiamo trovato un ritmo, quasi una preghiera. Le rocce scivolose, i laghi scuri che sembravano specchi di altri mondi, il vento che arrivava dalla valle come una voce antica.

E poi, in cima, il silenzio. Un silenzio che non era assenza di suoni, ma una presenza totale: come se il Cader stesso stesse parlando, a modo suo, dicendoci che la vita è fatica, vertigine, ma anche regalo.

Quando, esausti, siamo ridiscesi, eravamo diversi. Non più turisti in Galles, ma ospiti che avevano ricevuto una confidenza.

Ecco perché il Cader Idris non è solo la montagna più bella che abbiamo scalato: è un ricordo che ci portiamo dentro come un talismano.

E forse la nostalgia più forte, adesso, è proprio questa: sapere che non potremo mai rifare quella scalata per la prima volta.


Castelli, pub e silenzi

I castelli sono stati più che pietre e mura: erano un dialogo con chi c’era prima di noi.

Beeston ci ha fatto sudare tre bastioni e un burrone, Chirk ci ha accolto con sale e arazzi e poi ci ha lasciato fuori dai dungeon “per manutenzione”. Eppure, in quelle chiusure improvvise, c’era il fascino del non detto: non tutto ti è concesso, e ciò che resta negato diventa leggenda.

I pub, invece, ci hanno regalato la parte opposta: calore, birra, sorrisi e quell’umanità che ti fa sentire meno ospite. Ancora oggi, se chiudo gli occhi, posso sentire l’odore del legno bagnato del The Shady Inn e le luci basse del Cheshire Cat.


Cosa resta (oltre al cheddar nel bagaglio)

Restano le risate, certo. Restano gli sguardi complici quando tutto va storto. Restano gli abbracci dopo una salita.

Ma resta anche un senso di nostalgia che pizzica piano, come un vento freddo che non ti fa male ma ti obbliga a ricordare.

Il Galles ci ha insegnato a ridere del lusso sbagliato, a rispettare il silenzio dei giardini, a sopportare pizze impossibili e strade claustrofobiche. Ma soprattutto ci ha insegnato che ogni viaggio, alla fine, è un modo per conoscerci meglio.

E adesso che siamo tornati, scopriamo che il viaggio continua a vivere in noi: nelle frasi che ripetiamo a cena, nei ricordi che Maddalena infila nei suoi racconti, nelle foto che sembrano già vecchie ma che in realtà pulsano ancora di vita.


Epilogo: il timbro sul passaporto (in lana)

All’uscita immaginaria del Galles c’è una casetta di pietra. Dentro, Margaret indossa una giacca da impiegata comunale e un timbro in zoccolo. “Motivo del rientro?” chiede con voce burbera. “Nostalgia” rispondiamo all’unisono. TUNK.

Un timbro rotondo, inchiostro blu, odore di prato bagnato: “Rientro autorizzato. Obbligo di ritorno”.

Torniamo a Verona con le valigie piene di fango, una manciata di sassi, un paio di storie inventate e una certezza: il Galles non finisce quando l’aereo tocca terra. Finisce quando smetti di sentirti parte delle sue colline.

A noi non è ancora successo. E, a essere sinceri, non vogliamo succeda mai.

The End

(per ora)